Corriere della Sera, 15 ottobre 2022
Meloni porta la Lega dalla sua parte
Se la premier in pectore arriva a dire, nel mezzo delle trattative per la formazione del suo governo e in risposta a un appunto di Silvio Berlusconi pieno di offese, «non sono ricattabile», è chiaro che sta cominciando un’altra legislatura di battaglia, nervosa, carica di tensioni. Nonostante la vittoria a valanga del centrodestra, e la sua netta maggioranza parlamentare. Non si capisce se il ricatto cui fa riferimento Giorgia Meloni sia stato tentato contro di lei, o se intende che lei sa resistere a ricatti mentre altri no. Fatto sta che non sembra davvero questo il clima ideale per far nascere il governo che sostituirà quello di Draghi. Si vede che la coalizione vincente è stata premiata sì, ma anche scossa dal voto: il «chi siamo» e «che cosa vogliamo» è una questione esistenziale del tutto aperta. Non poteva del resto essere diversamente. Da quando esiste, il centrodestra al governo non è mai stato guidato da nessun altro che Berlusconi. Federatore, garante e anche sensale di un patto tra diversi. Che cosa sarà il centrodestra degli anni ’20 è ancora tutto da scoprire.
Dall’elezione dei due presidenti delle Camere abbiamo per ora appreso due cose. La prima è che Giorgia Meloni ha volontà e capacità di leadership. Speriamo l’abbia registrato chi fino a qualche mese fa credeva di poterla trattare col paternalismo che taluni ancora riservano alle giovani donne.
Maturazione personale a parte, è stato il voto a investirla di questa grazia di stato. È l’unica vincitrice.
È alla testa di un’alleanza in cui gli altri due partner hanno perso milioni di voti. È nella condizione per cui deve far certo i conti con tutti, ma non deve render conto a nessuno, se non alla Costituzione. Sul caso Ronzulli ha cominciato a usare i poteri dell’articolo 92. Non sta scritto da nessuna parte che il premier incaricato debba farsi scrivere la lista dei ministri e relativi dicasteri dalle burocrazie dei partiti. Meloni rischia in proprio: successo o insuccesso del suo governo saranno addebitati a lei. È dunque giusto che scelga: se un ministro non la convince, magari perché già immagina di poter fare il cavallo di Troia all’interno del governo, nessuno può imporglielo.
La seconda novità politica che abbiamo appreso dall’elezione di La Russa e Fontana, è che Giorgia Meloni ha scelto di ricostruire l’asse, un tempo «sovranista», con Salvini. È stata la mossa di portare la Lega dalla sua parte, con una «offerta generosa» comprensiva della presidenza della Camera e di un elevato numero di ministeri, a mettere nell’angolo Berlusconi. Si potrebbe chiosare: chi è causa del suo mal pianga se stesso. Se scrivi «Forza Ronzulli» sulla bandiera di un partito che ha fatto la storia nazionale dell’ultimo quarto di secolo, sei destinato in partenza a perdere. Anche perché al momento dell’incasso, pur dopo un risultato elettorale men che modesto, Salvini non ci ha messo un attimo a mollare quella corrente di Forza Italia che aveva tentato di aggrapparsi a lui per salvare carriere personali e prospettive politiche. Era un calcolo sbagliato, che ha fatto perdere identità al partito di Berlusconi proprio quando più ne avrebbe bisogno per compensare l’inevitabile declino del fondatore. Da questo punto di vista il caso Ronzulli è quasi un contrappasso dantesco. E ripropone con drammaticità il tema del futuro di Forza Italia, sui cui gruppi parlamentari sia Salvini sia Meloni saranno tentati di lanciare prima o poi un’Opa, magari amichevole.
La scelta di Giorgia Meloni però certamente riduce, e di molto, il peso che la componente liberale, popolare, europeista, è destinata ad avere nel suo governo. C’è da augurarsi che intenda compensarla attraverso un qualificato numero di tecnici e indipendenti nei ministeri chiave, decisivi nel rapporto con l’Europa. Ma la sensazione è che finora l’establishment, le élite italiane di solito tanto biasimate eppure così decisive per la forza di un Paese, si stiano tirando fuori dalla sfida del nuovo governo. E d’altra parte spetterebbe anche e soprattutto a Forza Italia riprendersi quel ruolo di interprete del centro moderato del centrodestra, se ne è ancora capace.
Il nuovo governo, che rappresenta pur sempre una minoranza di elettori, deve infatti aprirsi il più possibile al Paese, innanzitutto nel suo interesse. Il rischio di ritirarsi alle prime difficoltà nelle casematte del passato è infatti reale per una forza politica che, come Fratelli d’Italia, ha conosciuto una tanto repentina trasformazione da piccolo gruppo a partito di massa.
Gli stessi nomi dei due presidenti delle Camere sono il frutto evidente di una scelta «identitaria». La Russa è erede diretto della storia della destra italiana, e co-fondatore del partito che nacque dalla dissoluzione del Popolo della Libertà. Ma ciò malgrado ha mostrato una capacità espansiva verso una parte cospicua dell’opposizione, che non è solo «inciucio» ma anche voglia di voltare pagina e di far partire la legislatura in accordo con il voto popolare. Fontana è tra i più fedeli interpreti del salvinismo dio-patria-famiglia, alquanto diverso dal leghismo nordista e pagano delle origini. Nel suo caso i voti del centrodestra si sono invece ristretti, invece che allargarsi. Tra i suoi pregi spicca la fedeltà al leader: si può prevedere che non sarà mai affetto dalla «sindrome di Montecitorio», quella spinta all’autonomia politica che ha portato altri presidenti della Camera in passato ad andare in conflitto con il proprio schieramento, da Casini a Bertinotti a Fini.
Ma ora è davvero tutto nelle mani della premier in pectore: sarà la lista dei ministri e l’intesa che saprà trovare con Mattarella il suo vero biglietto da visita. Sperare che superi la prova è sperare che l’Italia abbia al più presto un governo capace di guidarla in uno dei passaggi più difficili della storia recente.