La Lettura, 15 ottobre 2022
Identikit di un assassino seriale
In Italia potrebbero esserci fra i tre e i sei serial killer attivi e non ancora individuati. E che forse non lo saranno mai.
La statistica assomiglia a una inquietante profezia, ma è fondata. La probabilità di questo numero si basa su una serie di fattori. Talora questi assassini agiscono a intervalli di tempo troppo lunghi per collegare fra loro gli omicidi, a volte anche anni. Oppure uccidono in luoghi troppo distanti fra loro. O, solitamente, scelgono le loro prede fra le persone sole o che vivono ai margini della società.
Vittime e carnefice sono invisibili.
La narrazione della figura del serial killer è iniziata negli anni Ottanta, ma è negli anni Novanta che è evasa dai confini della cronaca nera e si è imposta nell’immaginario collettivo diventando quasi un’icona pop dell’ultima decade del secolo. Dal Silenzio degli innocenti in poi, ha iniziato a impazzare nel cinema come in letteratura, salvo poi sparire quasi del tutto con l’inizio del nuovo millennio.
Ma adesso i serial killer sono tornati fortemente di moda. Complice forse il nuovo Medioevo in cui stiamo precipitando.
Non a caso fu l’inquisizione di Torquemada che, sei secoli fa, ci fornì la prima definizione di questi assassini dalla condotta inspiegabile. Li chiamarono lobos – lupi – perché preferivano agire con il plenilunio. Gli inquisitori finirono per criminalizzare una specie animale e diedero origine alla leggenda dei licantropi, perché gli sfuggì la lezione più semplice: questi criminali sceglievano le notti di luna piena non perché fossero mossi da un istinto animale, ma perché era il modo più semplice per orientarsi al buio.
In passato, i serial killer erano già presenti nelle storie della buonanotte che i genitori raccontavano ai figli. Quando non c’erano i mass media, l’unico modo per tramandare la conoscenza di un pericolo di generazione in generazione era trasfigurare un fatto di sangue in una fiaba. Italo Calvino nella sua antologia ci insegna che questi racconti non terminavano mai con «e vissero felici e contenti». Il finale, infatti, era sempre drammatico perché doveva fungere da monito.
Il serial killer è una figura complessa, non facilmente inquadrabile. Abbiamo iniziato a farlo soltanto da qualche decennio.
Negli anni Sessanta, l’Fbi Behavioral Science Unit (Bsu) ha cominciato a classificare profili psicologici partendo da semplici interviste con gli assassini seriali catturati. È così che è cambiata la nostra visione del fenomeno ed è iniziata l’era dei profiler.
Ancora oggi si è portati a pensare che i serial killer siano dei mostri perché fanno cose mostruose, oppure che siano folli perché, apparentemente, la follia mette al riparo i «sani di mente» dalla possibilità di essere equiparati a questi esseri senza cuore. Invece, il più delle volte, il serial killer è l’ottimo cittadino, il buon vicino di casa, il bravo ragazzo, il tipo solitario ma tranquillo, il collega timido e innocuo. II loro apparire normali agli occhi degli altri rivela un’inquietante capacità di mimetizzazione.
Se fossero mostruosi, li prenderemmo subito. Se fossero mostruosi, non sarebbero seriali.
Perciò dovremmo rassegnarci al fatto che ci somiglino. Per questo è importante capire come nasca il loro bisogno di uccidere che, in apparenza, non è giustificato da alcun movente. Invece i serial killer possiedono un’intima giustificazione, perfettamente strutturata nella loro mente. Una propria razionalità per tutto ciò che fanno. E lo fanno perché, in cambio, ricevono una ricompensa, anche se questa spesso risulta comprensibile solo a loro. Un guadagno del tutto psicologico.
Questo non vuol dire che siano affetti da una malattia mentale, piuttosto da un disturbo della personalità, una precisa castrazione del senso morale e della coscienza. Ma non sono nati mostri, sono diventati ciò che sono in un processo che si è svolto lungo tutta la loro vita e che li ha portati a uccidere senza rimorso.
Per capire esattamente perché un assassino seriale si comporti in un certo modo, è necessario approfondire la storia della sua vita. Il fatto di avere subito abusi nell’infanzia o di avere alle spalle un vissuto di emarginazione e solitudine e d’incomprensione con la famiglia, li ha portati a normalizzare la violenza interpersonale. Negli anni, il serial killer accumula queste esperienze negative come in uno stato di incubazione della personalità che poi genererà il mostro. Ma, per la maggior parte del tempo, quel mostro rimarrà ben nascosto dentro di lui. L’unico momento in cui rivelerà il proprio volto sarà durante gli omicidi. E gli unici a vederlo per ciò che è realmente saranno le sue vittime.
Il comportamento del serial killer si può suddividere in fasi.
La prima è quella della fantasia. Egli passa gran parte del suo tempo a pensare al crimine. Le fantasie giocano un ruolo chiave. Spesso sono stimolate con la pornografia, il voyeurismo, il feticismo. Marco Bergamo rubava le mutandine dalla biancheria stesa ad asciugare delle sue vicine o le comprava dalle prostitute. Ma ci sono anche altre fantasie, ben più sofisticate. Luigi Chiatti, il «mostro di Foligno», fantasticò a lungo la possibilità di rapire un neonato per vivere insieme in una tenda finché quest’ultimo non avesse raggiunto l’adolescenza e allora lui l’avrebbe restituito alla famiglia. Ma Chiatti non pensò mai alla morte del bambino che avrebbe rapito, lo scopo era soprattutto risolvere i propri problemi di solitudine. Non si può dire se sia più inquietante il fatto che poi abbia accantonato quella strampalata idea scoprendo che era più soddisfacente uccidere un bambino piuttosto che rapirlo, o quello che comunque nel frattempo Chiatti avesse accumulato scorte di viveri, acquistando anche una tenda e dei vestitini.
Prima di cercarlo nella realtà, dunque, l’oggetto del desiderio viene a lungo fantasticato.
Il mondo interiore del serial killer è un intreccio di pulsioni. Ma quando questa interiorità non è più capace di contenerle, il passaggio all’atto diventa inevitabile. La pianificazione dell’aggressione è un modo per placare momentaneamente la voglia di uccidere. Ma è solo un palliativo. Prima o poi, l’immaginazione finisce con il soppiantare la vita reale. Le fantasie sadiche diventano la realtà, l’unica possibile. Si avvertono i primi segni premonitori di ciò che sta per accadere. Il serial killer aumenta il proprio isolamento. Il progressivo distacco dal mondo è fatale e prelude a ciò che questi individui stanno per diventare.
Assassini senza scrupoli. Macchine di morte da cui non ci si può salvare.
Il serial killer comincia a modellare la realtà che lo circonda a seconda della propria fantasia: la modifica piegandola ai propri scopi. L’unico interesse ormai è realizzare l’intento. Ecco che gli altri che, nella sua vita piena di solitudine e freddezza, non sono mai esistiti come persone, in questa nuova dimensione riappaiono ma come «oggetti». Non per ciò che sono, ma per ciò che rappresentano: una possibile fonte di piacere.
Termina la fase della fantasia, comincia quella dell’organizzazione del delitto che parte dalla ricerca della vittima. Per alcuni serial killer è fondamentale che possegga determinate caratteristiche. Nella scelta si comportano in modo infantile, perché covano un complesso d’inferiorità. Spesso odiano e invidiano la vittima, perché possiede ciò che a loro manca. Scelgono le persone più deboli e vulnerabili, così da poterle controllare e manipolare.
Una volta individuata la preda, scatta l’inganno. Ogni serial killer costruisce una bugia attraverso cui carpire la fiducia della preda. Gacy prometteva un lavoro, Kemper offriva passaggi agli autostoppisti, Bundy portava spesso con sé dei libri per passare per uno studente.
La fase dell’uccisione non è come quella di un normale omicidio. In molti casi i serial killer cercano di rispettare un preciso rituale, per ognuno diverso. L’elemento comune è la crudeltà: solo attraverso essa possono ottenere il piacere.
Ogni individuo sa che per trarre una gratificazione dai rapporti interpersonali bisogna rispettare delle regole e che esistono precisi iter sociali da seguire. I serial killer, invece, hanno sperimentato che esistono altre modalità per ottenere lo stesso risultato. Essi non hanno perso l’esigenza di entrare in relazione con gli altri, solo che per loro è più difficile completare l’iter per ottenere considerazione o attenzioni. La solitudine li ha resi diffidenti, ostili. Ecco che la crudeltà diventa il modo più semplice per risolvere le proprie esigenze relazionali.
La crudeltà non è inarrestabile. Può capitare che il serial killer non porti a termine l’uccisione perché un gesto o una parola della vittima sblocca un meccanismo emotivo e lo ferma. Ma il più delle volte, la pietà invocata ottiene l’effetto opposto: eccita l’istinto sadico e serve solo ad aumentare il desiderio di uccidere.
L’ultima fase del comportamento è quella relativa alla sistemazione dei resti. Dopo l’uccisione, il serial killer tende ad abbandonare il corpo della vittima sulla scena del delitto oppure a trasportarlo altrove. Molti di loro hanno l’abitudine di compiere pratiche necrofile o di portare via oggetti ricordo o di asportare parti del corpo per assecondare un feticismo che servirà per poi rivivere in privato l’esperienza. Possedere l’oggetto, infatti, equivale a possedere la persona.
Molti si prendono la cura di ricomporre i corpi, facendo loro assumere posizioni significanti. Come a volere inviare un criptico messaggio. Marco Bergamo lasciava le vittime in pose oscene. Il trasportare altrove i cadaveri talvolta può servire solo a depistare le indagini. Ecco perché è importante esaminare bene la scena del crimine, senza tralasciare nulla. Consapevolmente ma anche inconsciamente, il serial killer tende spesso a lasciare una piccola prova del proprio passaggio. Una sorta di firma d’autore.
Le fasi dell’azione, però, non rispondono alla domanda fondamentale. Cos’è un serial killer?
Per esempio, se la loro condotta può risolversi nel famigerato binomio SESSO-MORTE, non bisogna pensare che i serial killer siano solo quelli a sfondo sessuale. In realtà, quest’ultima è solo una sottospecie perché le vere categorie in cui classificarli sono altre. Quattro, per l’esattezza.
Visionari, missionari, cercatori di potere, edonisti.
I visionari commettono i loro omicidi dominati da un alter ego con cui comunicano e da cui ricevono istruzioni, a volte sotto forma di visioni o di semplici voci.
I missionari hanno uno scopo preciso, si sono assunti la responsabilità di migliorare il mondo. E quest’opera, secondo loro, passa attraverso l’eliminazione di alcune categorie di persone indesiderate. Mossi da fantasie naziste, di purezza della razza o semplicemente da un anelito verso una società più pulita, uccidono stranieri, prostitute, omosessuali. La vittima è ritenuta indegna e, perciò, merita di morire. E di soffrire.
I cercatori di potere possiedono una scarsa autostima. Allora, pensano che la soluzione ai loro complessi passi attraverso il controllo sulla vita e sulla morte degli altri. Nel loro modus operandi è presente il sesso, ma è secondario: ciò che li appaga realmente è possedere la vittima, esercitando su di lei un senso di potere. Allora la violenza sessuale è solo strumentale all’umiliazione, all’annichilimento della preda prescelta.
Infine, gli edonisti sono quelli che traggono puro piacere dal delitto. La soddisfazione è un dato comune a tutte le categorie, ma in questo caso la voglia che muove questo serial killer non potrà mai essere saziata. Per questo, gli edonisti uccidono senza alcun freno inibitore. Finché qualcuno non li arresta o non li uccide.
Una sub-categoria dei serial killer edonistici è costituita da quelli a scopo sessuale i cui atti in passato assunsero il nome di lust murder. Distinguendo una scena del delitto disorganizzata da una organizzata, è possibile delineare due profili in cui questi serial killer tendono a rientrare.
La disorganizzazione del primo tipo si riflette in ogni aspetto della sua vita. È una persona che ha fallito nei contatti umani e che per questo ha compiuto una scelta di solitudine. Possiede un’intelligenza al di sotto della media. Non è un lavoratore capace. Non è sessualmente competente. Non abusa di alcool e droghe. Vive da solo o con una figura parentale. Non dimostra molto interesse per i mass media che si occupano dei suoi delitti perché non avverte la necessità di rivivere il crimine che lo ha già appagato.
Il basso quoziente d’intelligenza riflette l’incapacità di relazionarsi agli altri e il fatto che svolga un lavoro che non richiede particolari doti. La sua difficoltà nei rapporti sociali gli precluderà anche la possibilità di avere esperienze sessuali gratificanti. In molti casi, non ha mai avuto contatti sessuali all’infuori dei delitti.
Il serial killer disorganizzato ha dovuto subire una severa disciplina nell’infanzia. Per questo, tende a infliggere alle proprie vittime la stessa quantità di dolore e sofferenza a cui è stato esposto da bambino. La sua vita familiare è stata caratterizzata dall’instabilità dei rapporti con il padre o con la madre o con entrambi i genitori. All’interno di questo tipo di personalità si cela un sentimento di rabbia e ostilità che non necessariamente viene manifestato all’esterno. La sua è una personalità chiusa.
La mancanza di pianificazione del delitto lo rende ansioso nel momento della consumazione. Anche per questo tende a uccidere vicino a luoghi a lui familiari: il posto dove abita o dove lavora. Qui, infatti, si sente a proprio agio.
Non è solito conservare souvenir che gli ricordino l’assassinio.
Si è osservato che il killer disorganizzato ha spesso drastici e repentini cambiamenti del modus operandi. Possiamo classificare in questa categoria Luigi Chiatti, Marco Bergamo, Giancarlo Giudice.
Il tipo organizzato non è semplicemente l’esatto opposto del disorganizzato.
Può essere molto difficile identificarlo e individuarlo a causa del suo perfetto mimetismo, del fatto che sembri un individuo normale e rispettoso delle leggi. Ha un’intelligenza abbastanza elevata. È socialmente integrato. È abile nel suo lavoro. È sessualmente competente e vive di solito con un partner. Fa uso di alcool e droghe e presenta notevoli problemi di stress.
Il serial killer organizzato ha un quoziente di intelligenza molto elevato – Ted Bundy aveva 122! Per questo è in grado di affinare meglio le proprie tecniche di interazione. Ha una buona preparazione scolastica ed è molto abile nella sua occupazione: infatti preferisce lavori che richiedono capacità e che possono essere idonei al suo background culturale. Inoltre può ricoprire posizioni rilevanti nella comunità in cui vive.
Il serial killer di questo tipo ha pochi problemi nei rapporti con l’altro sesso perché ha avuto modo di fare esperienze. Di solito vive con un partner e viene da una famiglia in cui non ha dovuto subire una disciplina opprimente durante l’infanzia.
Il termine organizzato è fortemente indicativo del suo modus operandi. Egli seleziona accuratamente le vittime, cercandole generalmente in zone lontane dai luoghi di residenza e di lavoro.
È pulito nell’agire, metodico, non solo ritualistico.
Avverte la necessità di seguire la cronaca dei propri misfatti sui mass media e di conservare giornali e articoli, raccogliendoli in appositi archivi.
Questo tipo di serial killer è molto abile nel non lasciare tracce agli inquirenti e a controllare il procedere delle indagini, non solo sui mass media. Cosicché, all’occorrenza, potrà cambiare città, professione e abitudini per sfuggire all’arresto. Per questo è difficile catturarlo: egli impara dall’esperienza.
In questa tipologia possiamo classificare Jeffrey Dahmer e Ted Bundy.
Da un confronto tra la figura del serial killer disorganizzato e quella dell’organizzato emergono una serie di differenze peculiari. L’organizzato, generalmente, pedina aspetta e uccide. Le uccisioni possono essere programmate per giorni o settimane. Egli impiega una gran cura nella selezione della vittima. La scelta, però, sarà basata soprattutto su un’analisi visiva: egli «osserva» le vittime predestinate. Si inserisce nella vita della persona prescelta, informandosi sul suo conto e annotando le sue abitudini. Il disorganizzato, invece, non pianifica: agisce spontaneamente.
Per entrambi la vittima è sconosciuta. L’organizzato però riesce sempre a individuare un soggetto vulnerabile, mentre la vittima del disorganizzato è di solito una persona che si trova nel posto sbagliato al momento sbagliato.
L’organizzato cerca la conversazione con la vittima prima dell’aggressione, finge determinati comportamenti o una certa personalità come metodo per carpire la fiducia della preda. Preferisce lo strumento verbale alla forza fisica per averne ragione. La sua è un’opera di seduzione, la violenza arriva soltanto dopo. Il disorganizzato invece usa il linguaggio per un diverso scopo: poiché l’attacco è improvviso, egli parla alla vittima solo per insultarla o terrorizzarla.
La scena del delitto, infine, rifletterà fedelmente la personalità del criminale. La pulizia dell’organizzato è evidente, perché la sua parola d’ordine è «controllo». Alla fine trasporterà e nasconderà il cadavere e l’arma non sarà ritrovata. Il disorganizzato tende ad aggredire subito. Lo fa senza essere consapevole che ciò può accadere anche nel posto meno indicato e spesso non prende le precauzioni necessarie. Alla fine il cadavere sarà lasciato in vista e l’arma sarà quasi sempre presente.
Il killer organizzato preferisce immobilizzare le vittime per perpetrare torture o abusi prima della morte. Il disorganizzato, di solito, uccide subito ma dopo non disdegna pratiche necrofile.
L’organizzato non lascia prove o indizi e si guarderà bene soprattutto dal lasciare impronte o Dna, per il disorganizzato vale spesso il contrario.
Quando le due componenti, organizzata e disorganizzata, coesistono nello stesso omicida, si realizza una combinazione micidiale. Questo tipo di serial killer è assolutamente imprevedibile e, perciò, diventa anche imprendibile.
Per fortuna delle vittime e degli inquirenti, accade raramente. Il caso più eclatante è quello del mostro di Firenze.
Ed è proprio grazie a quest’ultimo che si è accesa l’attenzione sui crimini seriali in Italia. Fino a agli anni Ottanta, l’espressione serial killer non era mai apparsa nelle cronache giudiziarie nostrane. Ed è grazie agli studi criminologici iniziati con il più efferato assassino di coppiette della nostra storia che possiamo formulare il dato iniziale di questo articolo.
In Italia potrebbero esserci fra i tre e i sei serial killer attivi e non ancora individuati. E che forse non lo saranno mai.
Anche se non riusciamo a vederli, sono intorno a noi. Ci osservano, ci studiano. Rovistano fra i nostri rifiuti e imparano a conoscerci attraverso le cose che di solito gettiamo via senza pensarci troppo. Perché le persone dicono bugie, ingannano. La spazzatura non mente mai.