La Lettura, 15 ottobre 2022
Intervista a Julian Lage
Julian Lage è nato in California il giorno di Natale di 34 anni fa. E – a modo suo, con un sorriso disarmante, un eloquio gentile e mai sopra le righe – è un essere assai speciale nel mondo della chitarra. Jazz, soprattutto. Il suo arrivo in punta di piedi, poco meno di una decina di anni fa, in un mondo, quello appunto del jazz, in preda a un’eterna ricerca del fenomeno, del nuovo virtuoso: ebbene, lui si è presentato semplicemente con quello che aveva. Un grande talento – alimentato da una ferocia nello studio – non urlato, declinato e amplificato in una poesia che percorre i sentieri di un linguaggio magari non rivoluzionario ma senza dubbio nuovo. Rispettosamente ancorato al passato, ma acceso – pur rimanendo dentro una confezione tutto sommato canonica – da uno stile che sa spingersi oltre il pentagramma tradizionalmente inteso. Le sue improvvisazioni sono un po’ come la scrittura di Lawrence Osborne nei suoi romanzi: sembrano classiche a un primo fuggevole ascolto ma in realtà sono innervate da uno stupore estatico e sospeso che coglie di sorpresa.
Lage ha appena pubblicato il nuovo disco, il secondo per l’etichetta storica Blue Note, View with a Room, assieme a Jorge Roeder (contrabbasso) e Dave King (batteria) e con l’aggiunta di Bill Frisell (chitarra). Il trio (senza Frisell) sarà ospite al Teatro Ariosto di Reggio Emilia il 22 ottobre e del Blue Note di Milano il 25 per poi proseguire a Bruxelles e Norimberga. «La Lettura» ha chiacchierato con lui.
Quando suona jazz ha la precisione, la pulizia, il rigore dei grandi esecutori di musica classica...
«Amo la musica classica per chitarra. Julian Bream, Andrés Segovia, Agustín Barrios, Heitor Villa-Lobos, Christopher Parkening, Gyan Riley sono i miei eroi. E anche se mi considero un jazzista e un improvvisatore, adoro quando la chitarra viene suonata in quel modo».
In che cosa l’hanno influenzata di più?
«Nella ricerca di un suono orchestrale. Il tocco della mano sinistra, della destra, il fraseggio, la creazione del suono...».
Lei suona spesso in trio e ha paragonato questa formazione a un ecosistema. Lo può spiegare più nel dettaglio?
«Suonando in trio si crea una relazione interattiva e dinamica fra le persone. Si tratta di una struttura di potere in cui tutti contribuiscono allo stesso modo. L’interazione toglie inoltre stress e pressione ai musicisti. Poi mi interessa capire che cosa succede quando tre persone si arrendono alle forze l’una dell’altra».
E che cosa succede?
«Quando la musica vola, si riesce a scomparire all’interno del trio e i suoni ci arrivano da un punto di vista corporeo».
La sensazione, ascoltando il nuovo disco, è che ogni brano sia il singolo capitolo di un’unica avventura sonora.
«C’è molta varietà nella musica, ma ciò che ho cercato di fare soprattutto è stato cercare un pensiero coeso. Dave, Jorge e Bill fanno emergere un senso di connessione e unità, in qualsiasi cosa facciano».
In cosa siete simili lei a Frisell?
Ride: «Siamo amici. Il nostro modo di suonare è assai diverso, ma proviene in entrambi i casi da Jim Hall».
Nella sua musica, in questo disco, si respira con forza anche il passato.
«Si sta sempre sulle spalle dei giganti del passato: siamo qui grazie a loro».
Per lei soprattutto grazie a chi?
«Ai quartetti di Keith Jarrett, a Ornette Coleman, Miles Davis, Monk, Coltrane».
Ha lavorato con due grandi sassofonisti che sono agli opposti, Charles Lloyd, spirituale e mistico, e John Zorn, concreto e pragmatico.
«Per me in realtà sono simili. Hanno entrambi creato un vocabolario compositivo e improvvisativo per loro stessi. E consentono ai musicisti che suonano con loro non solo di entrarci, ma di portare anche il proprio. Zorn ha una scrittura molto eclettica, compone in tutti gli stili. Lloyd è un grande leader, riesce a tirare fuori il meglio dai suoi musicisti. Entrambi non conoscono la parola paura».
Studio e talento. Quanto contano?
«È difficile rispondere... Le due cose non si possono separare. Il talento è la propensione per lo strumento ma farlo emergere è ciò che conta e questo dipende tantissimo da chi insegna».
A cosa la fa pensare il virtuosismo?
«A qualcosa di bello, di necessario. Ma attenzione: perché se usato male può oscurare proprio il suo lato più positivo. È una parola che associo soprattutto ai musicisti classici, Vladimir Horowitz, Martha Argerich, Arthur Rubinstein...».
Tornando alla chitarra jazz, le faccio qualche nome di grandi maestri poco noti. Partiamo da Lenny Breau.
«Impressionante come suonava».
Johnny Smith?
«Orchestratore superlativo, un bel senso del tempo e un tocco speciale».
Grant Green?
«Il più lirico e ritmico in assoluto».
Joe Diorio?
«È stato mio maestro. Un “architetto”. Bellissime le sue linee spigolose».
Lei ha progettato anche due chitarre per la Collings. Come le ha pensate?
«Qualsiasi strumento deve essere il tuo complice, non qualcosa da dominare. Ti deve stimolare, spingere oltre, saperti rispondere e dare delle idee».
Cosa le piace meno della chitarra?
«Mi piace tutto».
E qual è invece la cosa più difficile da fare con una chitarra?
«Smettere di suonarla».