La Lettura, 15 ottobre 2022
La velocità della lentezza
Più che Un elogio della lentezza, come dice il sottotitolo, In contrattempo, il nuovo libro di Gian Luigi Beccaria (Einaudi), è un elogio della letteratura. Che, quando è tale, comprende necessariamente la lentezza, l’indugio, la pazienza. Certo, c’è anche una critica della nostra epoca, non in termini di invettiva apocalittica o di laudatio temporis acti: Beccaria conosce e riconosce i privilegi della velocità digitale, ma invita a distinguere tra disponibilità e uso. Disporre di un tutto indifferenziato richiede una capacità moltiplicata dell’uso, una maggiore severità di selezione, una più acuta finezza di analisi critica. In tal senso, questo breve e concentratissimo libro è anche una diagnosi della nostra cultura (umanistica e non solo).
Anche per questo, da grande storico della lingua e critico letterario qual è, allievo di Benvenuto Terracini e sodale di Cesare Segre e Maria Corti, Beccaria apre il libro schierandosi spudoratamente dalla parte della filologia. Spudoratamente, perché se mai ci furono tempi anti-filologici, sono proprio quelli che stiamo vivendo. Infatti, la filologia intesa in accezione ampia altro non è che la «meticolosa diligenza che occorre quando si è a tu per tu con la pagina scritta»: e lo è sia per chi scrive sia per chi legge (la «lettura lenta» invocata da Friedrich Nietzsche) sia per chi si trova a vivere nel mondo. Non per nulla il filologo, evocando il concetto di acribia, suona subito ai più come figura noiosa, da evitare accuratamente. Del resto, come può piacere la filologia in un’epoca frenetica: «La velocità – ha scritto Milan Kundera – è una forma di estasi che la rivoluzione tecnologica ha regalato all’uomo». Ecco perché anche questo elogio della resistenza filologica motiva la bellezza del titolo, In contrattempo, che subito dichiara al lettore il ragionamento controcorrente.
Beccaria non sembra concordare con Italo Calvino, che individuava nella rapidità (narrativa e mentale) uno dei valori del nuovo millennio. Sì, certo, bisogna riconoscere che un inizio in medias res come quello celebre della Malora di Beppe Fenoglio («Pioveva su tutte le langhe, lassù a San Benedetto mio padre si pigliava la sua prima acqua sottoterra») ha l’efficacia ineguagliabile della secchezza senza fronzoli. E Beccaria, ammiratore e studioso massimo di Fenoglio, non esita a segnalarlo. Ma lo stesso Calvino, tessendo le lodi della linea retta e fulminea, non ignorava il fascino sinuoso del ritardare la corsa del tempo nella narrazione: confessando, per esempio, la sua ammirazione per Lawrence Sterne, che inventò il romanzo fatto di digressioni, ovvero di fughe continue (probabilmente dalla morte, commenta Calvino).
Tuttavia quel che importa non è tanto preferire la sveltezza leggera del «cavaliere inesistente» o il rovello macchinoso di Carlo Emilio Gadda, perché in fondo qualunque scrittore degno di questo nome gestisce necessariamente, a suo modo, l’alternanza di movimento e stasi, di azione e descrizione. Ciò che interessa di più a Beccaria (e a noi) è da una parte il processo di elaborazione, dall’altra il gusto accurato di cogliere il dettaglio nella lettura. E se ciò vale per il lettore comune, deve valere a maggior ragione per il critico, spesso distratto da quel che sta dietro o intorno al testo. È chiaro che Beccaria mira allo stile: è lui il teorico dell’«autonomia del significante», che intende l’opera letteraria essenzialmente come forma, indipendente o quasi dai contenuti: quante poesie d’amore ha prodotto l’umanità ma se quelle di Dante e Petrarca ci lasciano sbalorditi è per i modi in cui lo cantano. Cogliere quel certo modo richiede tempo e pazienza.
Per Beccaria «l’atto primario, irrinunciabile» nell’avvicinarsi a un testo resta dunque il commento filologico e linguistico, quello che comporta umiltà, calma e orecchio. Ben sapendo che non basta una trama per fare un buon romanzo, non bastano delle belle parole per fare una poesia, anche se il diffuso populismo critico (analogo e simmetrico al populismo politico) si è adeguato e anzi ha assecondato il dilagare dello «stile uniforme», di una grigia oralità in presa diretta, considerando lo stile personale come un ostacolo fastidioso alla comprensione. Vince la scrittura frettolosa, adatta a un lettore «mondializzato» cresciuto con la lingua neutra delle traduzioni.
Disse Ezra Pound, a proposito di Dante, che «ogni grande opera d’arte deve la sua grandezza a una qualche complessità». La complessità rende lenta la lettura, ma la lentezza, come diceva un traduttore inglese di Dante, è bellezza. È bellezza soffermarsi con attenzione davanti a un quadro di Raffaello o di Vincent van Gogh. Guardarlo e riguardarlo: avrebbe senso dire in un museo «non vado nella sala di Goya perché l’ho già vista»? E così per la lettura: che senso ha dire «non rileggo I promessi sposi perché li ho già letti»? La complessità stratificata di un’opera d’arte regala di continuo immagini nuove, possibilità di lettura e prospettive sorprendenti che ci erano sfuggite a un primo sguardo. Eccola là, la lentezza che piace a Beccaria.
La lentezza della cura è quella che Beccaria chiede agli scrittori nel capitolo intitolato Cucire le parole: la lentezza operativa, la lentezza «pittorica» di cui è consapevole Alessandro Manzoni quando ci descrive i lineamenti della monaca di Monza, l’espressione degli occhi e le pieghe della fronte. Oppure quando si sofferma, in apertura del romanzo, sui gesti che compie don Abbondio. La rapidità nell’accennare a un tratto fisico capace di rimandare a un carattere morale è spesso inversamente proporzionale al tempo di elaborazione richiesto allo scrittore. Lo sa bene Primo Levi, maestro (lo dice Daniele Del Giudice) «nel cogliere e rendere narrativamente l’essenza di una persona, di un’anima, saldandola istantaneamente a un gesto, a un tono, a un tratto». Cucire le parole è l’espressione artigianale con cui Levi definiva il mestiere di scrittore. Già Marcel Proust usò la metafora del lavoro: anche per lui «lo scrittore confeziona un’opera come una sarta cuce un vestito», lavorando in modo incessante, meticoloso, paziente, cercando faticosamente la parola giusta, insostituibile, senza «nubi di approssimazione».
«La narrazione non è un facile fluire», ammonisce Beccaria, «racconto di una storia, di un avvenimento, trama che si dipana…». La bellezza sta nel come le cose sono dette, «nel come è fatta e come si è fatta l’opera». In prosa e ancora di più in poesia («la forma più alta e libera del linguaggio, una realtà distinta dalla natura», Giorgio Caproni dixit). Lo scrittore che piace a Beccaria «ama il proprio fraseggiare così come gli scultori amano la materia, il marmo, le proprietà fisiche della pietra e la sua grana; così come i pittori sono affascinati dal colore, dall’aspetto cromatico delle tempere».
Va da sé che la materia dello scrittore è la lingua, il suo colore è il suono, il tono, la combinazione musicale delle sillabe, delle parole, delle frasi (Beccaria ce ne offre esempi mirabili, da Francesco Petrarca a Giacomo Leopardi). Lo scrittore è faber, l’autore è etimologicamente: colui che fa crescere, dominato com’è dalla cura con cui ha accudito la propria opera. Capite ora il «contrattempo»? Non è strano che Beccaria dedichi un capitolo del suo libro alla scuola: perché la lettura filologica non è una tecnica, ma una mentalità di rigore e di fedeltà. E di rispetto.
In una lettera familiare, Petrarca scrisse: «Io voglio che il mio lettore, chiunque egli sia, leggendomi pensi solo a me, e non alle nozze della figlia, alla notte che ha passato con l’amante eccetera…», si potrebbe aggiungere oggi: a chattare sui social o altro. «Non voglio che si impadronisca senza fatica di ciò che non senza fatica io ho scritto», aggiungeva coriaceo il poeta del Canzoniere. Ardua pretesa, eccessiva e decisamente «in contrattempo» per la scuola dei crediti e dei debiti, che invita a guardare sempre più ai risultati pratici, all’efficienza acritica, alle istanze dell’economia e delle grandi aziende, «che richiedono soltanto “prestatori d’opera” pronti a rispondere alle esigenze produttive». Un mondo, insomma, in cui l’analfabetismo di ritorno non è un problema, anzi. Che cosa c’entrano Dante, Petrarca, Leopardi e Caproni con la produzione e con il consumo?
L’esortazione-chiave di Beccaria si trova proprio nel capitolo sull’insegnamento: mai dimenticare che dalla scuola, dal tempo (lento) dedicato a leggere (e a scrivere) i libri sono nate le grandi democrazie. Che, salvo errori, non dovrebbero essere ancora «in contrattempo». Salvo errori? Lo vedremo.