La Lettura, 15 ottobre 2022
La marcia su Roma raccontata da tre storici
Per discutere del fascismo e della sua eredità, nel centenario della marcia su Roma, ci siamo rivolti a tre studiosi: Fulvio Cammarano dell’Università di Bologna; Roberto Chiarini dell’Università di Milano; Giovanni De Luna dell’università di Torino, curatore dell’annale Feltrinelli Fascismo e storia d’Italia.
Il fascismo, nato nel 1919, già nel 1922 conquista la guida del governo. Come si spiega?
FULVIO CAMMARANO – La classe politica liberale aveva a lungo scherzato con il fuoco, sia cercando di utilizzare il fascismo per manovre di potere, sia tollerandone l’azione violenta. Solo all’ultimo minuto il governo di Luigi Facta, mentre era in corso la marcia su Roma, si decide a «chiamare i pompieri», approvando il decreto per lo stato d’assedio. Ma il re non lo firma, assumendosi una pesantissima responsabilità e affidando a Benito Mussolini la guida del governo. La gravità della scelta di Vittorio Emanuele III va sottolineata, perché da quel momento il fascismo non incontra più grossi ostacoli, mentre diversa sarebbe stata la situazione se le camicie nere si fossero trovate di fronte l’esercito.
Come mai si arriva così facilmente alla dittatura?
FULVIO CAMMARANO – Quello che il fascismo tolse agli italiani, le libertà politiche, alla maggioranza della popolazione non stava poi così a cuore. Per esempio nel nostro Paese pochi si erano battuti per l’allargamento del suffragio, rispetto a quanto era accaduto in altre nazioni europee. C’erano state lotte di massa, ma per rivendicazioni materiali. La scarsa sensibilità nei riguardi dei diritti civili favorisce l’ascesa di Mussolini.
ROBERTO CHIARINI – Dopo la Prima guerra mondiale vengono al pettine alcuni nodi. C’è una carenza di legittimità: l’Italia è un Paese di cattolici governato da massoni. Manca un’integrazione delle plebi contadine, orientate alla rassegnazione o al ribellismo. C’è una sorta di cittadella liberale circondata da masse ostili. La guerra poi ha un effetto deflagrante: dopo tanti lutti e sacrifici, gli italiani pretendono di essere compensati, ma chiedono troppo rispetto a quello che il sistema politico può dare. Così nelle elezioni del 1919 i liberali perdono la maggioranza assoluta: per giunta sono divisi al loro interno, quindi danno vita a governi molto deboli.
Eppure i fascisti nel 1919 sono irrilevanti.
ROBERTO CHIARINI – Sì, ma intanto il fulcro della politica dal Parlamento si è spostato nelle piazze. E la guerra ha abituato i reduci alla violenza: chi viene dalle trincee vede gli avversari politici come nemici da liquidare. Il fascismo è il massimo interprete di questa mentalità e riesce a trascinare i ceti medi in una contrapposizione frontale con le classi proletarie rappresentate dai socialisti. Così Mussolini si apre la strada per il potere.
GIOVANNI DE LUNA – La guerra è un fattore decisivo, perché ha inoculato nella società un surplus di violenza senza precedenti. Nelle trincee l’imperativo di non uccidere è sostituito dall’incentivo a uccidere. Saltano tutti i parametri etici. Si tratta di un trauma terribile, che l’Italia liberale non è in grado di gestire. La vecchia classe politica non ce la fa più di fronte al nuovo protagonismo delle masse. Invece Mussolini utilizza la violenza diffusa come una risorsa strategica per la conquista del potere.
In che modo?
GIOVANNI DE LUNA – Le componenti sociali – industriali, agrari, operai, braccianti – non trovano più nello Stato liberale la mediazione istituzionale. E ne deriva una sorta di lotta di tutti contro tutti, nella quale il fascismo si legittima debellando militarmente il movimento dei lavoratori. Lo favoriscono le connivenze dell’esercito e della magistratura, che chiude un occhio sui delitti squadristi, ma l’eredità della guerra è a mio avviso determinante.
FULVIO CAMMARANO – Io farei un passo indietro: già nelle agitazioni per l’intervento in guerra nel 1915 si era visto che le istituzioni potevano essere sfidate nelle piazze. Anche qui vanno ricercate le radici del fascismo.
ROBERTO CHIARINI – Un altro punto è che gli oppositori del fascismo tardano molto a coglierne il carattere specifico. Per alcuni anni continuano a giudicarlo secondo i parametri della politica precedente. Gli stessi socialisti accolgono il governo Mussolini come una semplice variante del dominio borghese.
Il fascismo fu un regime totalitario o semplicemente autoritario?
FULVIO CAMMARANO – Mussolini si dà un progetto totalitario, che tuttavia per essere completato richiedeva tempo e abilità tattica per superare gli ostacoli residui come la monarchia. Il fascismo vuole imporsi non solo come regime politico, ma anche come sistema morale. Lo dice chiaramente nel 1925 il ministro della Giustizia Alfredo Rocco: «Bisogna curare l’animo oltre che il corpo degli italiani». Si trattava dunque di penetrare nelle coscienze per creare un nuovo modello umano.
ROBERTO CHIARINI – La distinzione tra un sistema autoritario e un regime totalitario consiste nel fatto che il primo ricorre a un potere repressivo per colpire gli oppositori, ma gli basta che nessuno attenti al suo dominio. Il totalitarismo invece non si accontenta di schiacciare gli avversari, vuole forgiare un uomo nuovo che interiorizzi in maniera quasi subliminale i valori del regime. Mussolini si rivolge soprattutto alle nuove generazioni, le più malleabili, cominciando dalla primissima infanzia. Ho trovato a questo proposito degli inviti al battesimo in cui il bambino nudo portava già il fez.
Ma funzionava questo condizionamento?
ROBERTO CHIARINI – Ho intervistato diversi reduci di Salò. Quando gli si chiedeva se erano fascisti rispondevano: «Eravamo italiani». Per loro l’appartenenza alla nazione s’identificava con il fascismo, proprio come desiderava Mussolini. Si tratta di un progetto che avanza per gradi e conosce un salto di qualità dopo il 1936 e la conquista dell’Etiopia, quando il regime si allea con la Germania nazista, diventa antiborghese, emana le leggi razziali ed entra in conflitto con la Chiesa di Pio XI.
GIOVANNI DE LUNA – Il fascismo intende sussumere l’intera società civile all’interno dello Stato. Ogni segmento anagrafico, sociale, sessuale ha un’istituzione preposta al suo controllo: i balilla, le massaie rurali, gli universitari. Dunque il progetto totalitario c’è, ma non si realizza compiutamente perché forze come la Chiesa, il potere economico, la monarchia, l’esercito mantengono una loro autonomia e saranno poi protagoniste della caduta del fascismo il 25 luglio 1943. Quelle stesse forze del resto avevano in precedenza favorito l’ascesa di Mussolini, ponendo così un’ipoteca sul regime.
Quindi il potere del Duce è meno assoluto di quanto possa sembrare?
GIOVANNI DE LUNA – Mussolini presta attenzione anche ai dettagli minimi, si preoccupa che nella carta intestata il fascio sia delle stesse dimensioni dello scudo sabaudo. Capisce che il suo è un totalitarismo incompleto e non si dà pace. Mi ha molto colpito un fatto. Quando scoppia la guerra nel 1939 e l’Italia sceglie la non belligeranza, ma con il proposito di schierarsi poi a fianco del Terzo Reich, la Fiat continua a dare priorità alla produzione civile rispetto a quella militare. Mussolini se ne lamenta, ma non è in grado di incidere. È una dimostrazione evidente di come il fascismo sia un totalitarismo imperfetto.
Quanto ha pesato e quanto pesa il lascito del fascismo nell’Italia repubblicana?
FULVIO CAMMARANO – La permanenza di un’eredità del fascismo è direttamente proporzionata al vasto consenso che il regime aveva avuto e che non poteva scomparire all’improvviso senza lasciare un segno nel profondo nella mentalità diffusa. Pensiamo al mantenimento del codice penale elaborato da Rocco. Oppure al ritardo che si è registrato nell’attuazione degli aspetti della Costituzione repubblicana legati al tema dei diritti. C’è stato un lungo congelamento di alcune disposizioni della nostra Carta fondamentale, senza che questo suscitasse particolari proteste.
Per quale ragione?
FULVIO CAMMARANO – Il fatto è che le principali famiglie politiche dell’Italia repubblicana non hanno mai messo al centro dei loro programmi la questione dei diritti. E ciò ha contribuito a fare in modo che gli italiani coltivassero un’immagine edulcorata del fascismo. Al regime si è rimproverata soprattutto la scelta sciagurata di entrare in guerra, così come quella di avere introdotto le leggi razziali, mentre non è stato attribuito il necessario rilievo allo sradicamento della libertà. Molti anzi hanno mostrato di apprezzare, anche retrospettivamente, l’immagine di prestigio nazionale e di pace sociale costruita da Mussolini. Da questo punto di vista il caso del codice Rocco mi sembra emblematico.
In che senso?
FULVIO CAMMARANO – Un grande penalista, Francesco Palazzo, ha parlato a questo proposito di «incantesimo autoritaristico». Voleva dire che la finezza del lavoro di Rocco nel dare una veste giuridica a una cultura autoritaria aveva prodotto risultati duraturi, che si erano proiettati anche oltre la caduta del fascismo.
ROBERTO CHIARINI – Il fascismo ha lasciato segni profondi a destra ma anche a sinistra. In Italia abbiamo il caso unico in Europa di una destra che nasce, vive e si perpetua come neofascista, nonostante i vari tentativi compiuti di emanciparsi da questo marchio. Ne è nata una contraddizione tra un’identità che aspira a trasformarsi, a conquistare credenziali liberal-democratiche, e una memoria neofascista che non è mai stata non dico sostituita, ma neppure realmente rielaborata. Invece di sciogliere questo nodo, la destra ha preferito lasciare deperire la sua memoria, farla esaurire per inerzia. Del resto tutti i tentativi di venirne a capo sono stati un po’ come toccare l’alta tensione.
Proviamo a ripercorrerli.
ROBERTO CHIARINI – Arturo Michelini, segretario del Msi per molti anni, vide tramontare il suo disegno d’inserimento nel sistema con la caduta del governo Tambroni, un monocolore democristiano che aveva appoggiato. La pur consistente scissione di Democrazia nazionale dal Msi negli anni Settanta venne cancellata da Giorgio Almirante. Quanto a Gianfranco Fini, la sua definizione del fascismo come «male assoluto» non ha portato da nessuna parte.
Eppure fu uno sforzo notevole.
ROBERTO CHIARINI – Sì, ma con scarso riscontro nella base del partito. Quando nel 1998 feci distribuire un questionario alla conferenza programmatica di An tenuta a Verona, i risultati furono significativi: da una parte gli interpellati mettevano insieme pensatori agli antipodi come Julius Evola e Karl Popper, dall’altra il 60 per cento continuava a giudicare il fascismo un buon regime, mentre soltanto il 18 per cento lo considerava autoritario. Anche altre inchieste realizzate successivamente hanno evidenziato che l’identificazione con il fascismo viene gradualmente abbandonata dalla classe dirigente, ma rimane viva nella base. Per molti è un fatto esistenziale: non accettano di mettere in discussione scelte di vita che considerano generose e disinteressate. Le loro parole d’ordine sono sempre elementari: «onore», «tradimento», «patria». Non si preoccupano di approfondire i contenuti ideologici, si rifanno a un richiamo emotivo difficile da scalfire.
È per questo che il vertice di Fratelli d’Italia appare reticente circa il suo rapporto con il fascismo?
ROBERTO CHIARINI – Mostra un evidente imbarazzo. La soluzione più facile, adottata in passato da Fini e ora da Giorgia Meloni, è dire che la destra italiana ha consegnato il fascismo alla storia. Ma è una dichiarazione talmente ovvia da risultare risibile. Il problema non è constatare che il fascismo fa parte della storia, ma esprimere su di esso un giudizio politico.
GIOVANNI DE LUNA – Nella storia d’Italia l’eredità del fascismo non ha pesato sempre allo stesso modo. Ci sono state diverse fasi. In un primo tempo, dopo il 1945, il dato determinante fu la continuità dello Stato, cioè il fatto che gli apparati istituzionali, ma anche il blocco economico dominante, la mentalità complessiva erano rimasti sostanzialmente gli stessi dell’epoca fascista. Nel dopoguerra la mancata epurazione garantisce il passaggio quasi spontaneo dalle file del fascismo ai ranghi dell’Italia repubblicana. Si pensi a Gaetano Azzariti, primo presidente della Corte costituzionale, che in precedenza aveva presieduto il Tribunale della razza. Oppure a Marcello Guida, questore di Milano all’epoca della strage di piazza Fontana, che sotto il regime era stato direttore della colonia di confino politico dell’isola di Ventotene.
Non sono casi limite?
GIOVANNI DE LUNA – No, si potrebbe moltiplicarli a dismisura. Ma ciò che più conta sono le strutture economiche che avevano sostenuto il fascismo e rimangono intatte nel dopoguerra. La continuità del resto si può riscontrare anche da fonti popolari come le canzoni: negli anni Cinquanta al festival di Sanremo domina una retorica che è totalmente figlia della mentalità piccolo borghese dell’Italia fascista. La continuità s’impone non solo nello Stato, ma anche nella società.
Fino a quando?
GIOVANNI DE LUNA – È il boom economico a cambiare la situazione. L’Italia si scrolla di dosso il marchio di Paese rurale e quelle forme di comportamento diventano obsolete. È molto importante anche il luglio del 1960, con la mobilitazione antifascista contro il governo Tambroni sostenuto dal Msi. Si apre allora un’altra fase in cui l’eredità del regime perde molto mordente, anche per l’effetto del Sessantotto e delle lotte operaie. Negli anni Settanta la classe politica si riconosce nella Repubblica «nata dalla Resistenza».
Poi però Tangentopoli travolge le forze politiche tradizionali.
GIOVANNI DE LUNA – E infatti si arriva alla «seconda Repubblica», preannunciata da segnali come l’intervista rilasciata a Giuliano Ferrara da Renzo De Felice, in cui il biografo di Mussolini propose l’abrogazione della disposizione costituzionale che vieta la ricostituzione del Partito fascista. Ne consegue lo sdoganamento del fascismo e della forza politica che ad esso si ispirava, il Msi, che diventa Alleanza nazionale. E si verifica una progressiva diseducazione degli italiani nei confronti della storia. La Resistenza viene imbalsamata, prende piede una retorica bolsa della «memoria condivisa», si verificano episodi sconcertanti come l’omaggio di Luciano Violante ai «ragazzi di Salò». Così la religione civile che si era cercato di costruire sull’antifascismo finisce disintegrata, perché viene meno il patto di memoria su cui si era formata.
In che cosa consisteva quella religione civile?
GIOVANNI DE LUNA – Nel richiamo ai valori della Resistenza. Nell’idea che l’antifascismo fosse il perno dell’assetto costituzionale. La religione civile è qualcosa che deve unire, includere, far sì che ci si riconosca nella stessa genealogia, nelle stesse ricorrenze del calendario. Il 25 aprile già nella parte finale della prima Repubblica era diventato una celebrazione fine a sé stessa, annegata nella retorica. Ma poi si è afflosciato su sé stesso fino a trasformarsi in una data divisiva più che inclusiva.
FULVIO CAMMARANO – Secondo me il problema è che la mentalità autoritaria non era affatto scomparsa con il boom economico e il Sessantotto. Si era semplicemente posta sulla difensiva, ma continuava a persistere attraverso canali meno visibili. E gli italiani in maggioranza non l’hanno mai veramente ripudiata.
Come va giudicata a questo proposito la parabola del neofascismo e delle sue successive trasformazioni?
FULVIO CAMMARANO – La destra ha saputo trasformare la nostalgia in testimonianza e poi in proposta politica. Contro di essa non c’è stata una reazione forte, quando si è arrivati allo sdoganamento del Msi, perché la società civile non ha espresso un rigetto chiaro dell’eredità del fascismo. Qui c’è anche una grossa responsabilità delle altre culture politiche, che solo in parte hanno svolto quel ruolo pedagogico di educazione alla democrazia che spettava loro di esercitare. C’è stato un periodo in cui l’antifascismo sembrava essersi imposto, ma è come se fosse stata una grande fiammata, tra il Sessantotto e gli anni Settanta, che si è esaurita alla superficie senza agire in profondità.
Però il neofascismo si è trasformato.
FULVIO CAMMARANO – Lo slogan «Dio, patria, famiglia» in apparenza non è fascista, ma si collega a una mentalità conservatrice e tradizionale ancora molto viva. Il neofascismo missino e postmissino, nelle sue successive trasformazioni, ha dimostrato una capacità mimetica notevole. E il fatto che la generazione dei reduci sia venuta meno non lo ha ostacolato, perché la memoria si rigenera in forma mitologica, dando vita a quella sorta di militanza esistenziale di cui parlava Chiarini.
ROBERTO CHIARINI – Il caso del Msi riguarda un partito antisistema che però accetta il gioco democratico e con il tempo è costretto a fare i conti con questa realtà. La democrazia ha un potere occulto straordinario, che le permette di integrare anche i nemici e li induce a trasformare la loro identità. Il Pci degli anni Ottanta è già nei fatti un partito socialdemocratico, ma difende la sua identità comunista: quando decide di cambiarla, paga uno scotto molto alto. La destra missina, che non ha partecipato ai lavori della Costituente e ha a lungo considerato la Costituzione come la fonte dell’aborrita partitocrazia, ha cambiato nome a Fiuggi nel 1995, senza pagare alcun prezzo. An ha compiuto allora una scelta politica, non un vero mutamento d’identità.
Quindi quell’identità è rimasta intatta?
ROBERTO CHIARINI – No, si è svuotata lentamente per tante ragioni, anche anagrafiche. E soprattutto non ha impedito alla destra di trovare un raccordo con la «maggioranza silenziosa» né fascista né antifascista, una sorta di zona grigia che ha comunque un’immagine edulcorata del passato regime perché ne ha rimosso nella memoria gli aspetti peggiori. Ciò ha permesso alla destra di aumentare in modo significativo i suoi consensi fino al successo del 25 settembre.
GIOVANNI DE LUNA – Anche il neofascismo ha attraversato diverse fasi. Con Michelini cerca di condizionare la Dc per spingerla in una direzione più decisamente anticomunista. Poi con Almirante adotta una linea più intransigente, di alternativa al sistema. Ciò che rimane intatto è la memoria: mentre quella partigiana è inquieta, sofferta, s’interroga di continuo su sé stessa, quella neofascista è granitica, non mostra dubbi, rivendica la difesa dell’onore e la fedeltà all’alleato tedesco. E quando le si ricorda la Shoah, asserisce che non ne sapeva nulla, anche se è evidente che la collaborazione di Salò fu fondamentale per la deportazione degli ebrei.
Oggi si ripropone quella differenza?
GIOVANNI DE LUNA – No. Non possiamo applicare alla realtà attuale lo schema fascismo/antifascismo. Va considerata semmai l’evoluzione della destra italiana, il cui bacino elettorale, considerando tutte le componenti, è sempre stato intorno al 40-42 per cento dei voti. Al suo interno ha prevalso prima Silvio Berlusconi, poi Matteo Salvini, oggi Giorgia Meloni. Bisogna vedere se il successo di Fratelli d’Italia è strutturale o contingente. Il dato permanente è però che non abbiamo una destra normale, simile a quella degli altri Paesi europei, dotata di senso dello Stato e della legalità. Anche Berlusconi era anomalo. Forse per capire questo fenomeno dobbiamo risalire al rapporto tra liberali e fascisti che s’instaurò nel momento dell’ascesa di Mussolini. Credo che quel legame si sia rivelato esiziale per i liberali, che dopo il 1945 non riusciranno più a essere una forza significativa nel sistema politico e resteranno sempre subalterni alla Democrazia cristiana.
FULVIO CAMMARANO – Il fatto che la destra abbia un serbatoio elettorale tanto vasto e che il liberalismo si sia rivelato così debole è significativo. Ci rimanda ancora alla scarsa sensibilità per i diritti individuali.