Corriere della Sera, 15 ottobre 2022
Sul pane (e su Altamura)
«È nato nella cenere, sulla pietra. Il pane è più antico della scrittura e del libro. I suoi primi nomi sono stati incisi su tavolette d’argilla in lingue ormai estinte. Parte del suo passato è rimasta fra le rovine. La sua storia è divisa tra terre e popoli».
Meglio di così, come ha fatto Predrag Matvejevic due anni prima della morte, avvenuta nel 2017, nel suo ultimo libro Pane nostro (Garzanti), sarebbe difficile inquadrare la storia del pane e del significato che esso ha per l’umanità. Il testo di Matvejevic dovrebbe essere la guida spirituale e materiale sia per la Giornata mondiale del pane che si celebra domani, 16 ottobre, sia della Giornata internazionale per l’eliminazione della povertà, il 17 ottobre.
Le due date e i due temi sono stati deliberati dall’Onu ma, almeno per quanto riguarda il pane, è stata l’Unione Europea a regolamentare bene e dettagliatamente le sue classificazioni «nobili», cioè la dop, denominazione di origine protetta, e la igp, indicazione geografica protetta. E una volta tanto, non per «dare i numeri» e stabilire la lunghezza standard delle zucchine o altre simili amenità, ma per preservare una storia, per tutelare un patrimonio immateriale e al tempo stesso un’arte antichissima, e per garantire il valore di un’alimentazione corretta e consapevole. Passa da qui, dunque, anche e forse soprattutto dal pane, alimento primario per eccellenza, quella cultura materiale – come hanno insegnato Fernand Braudel, Jacques Le Goff, Piero Camporesi – senza la quale si capisce poco o nulla dei popoli e della loro storia.
L’Italia non è né l’unico né il primo né il più antico «Paese del pane» – visto che la panificazione e la lievitazione così come oggi la pratichiamo risalgono all’antico Egitto —, ma l’Italia è al centro del Mediterraneo e il mare nostrum è anche sinonimo di pane nostrum, pane di questo sesto continente liquido che è appunto il Mediterraneo. In più, l’Italia è ai primi posti al mondo per produzione e consumo di pane (con una netta prevalenza al Sud) e secondo l’Istituto nazionale di Sociologia rurale conta 219 varietà di pane, alle quali sono riconducibili 1.500 varianti create dagli artigiani dell’Arte bianca e dalle tradizioni popolari.
Origini
La panificazione e la lievitazione così come le conosciamo sono nate nell’antico Egitto
Ottenere dunque una dop o una igp è un fatto serio, sul piano del prestigio e dell’economia, dell’affidabilità e quindi, di nuovo, dell’economia. Tanto è vero che fino a oggi solo tre pani italiani godono del riconoscimento dop: la siciliana pagnotta del Dittaino, il pane toscano e il pugliese pane di Altamura, che è stato il primo, nel 2005, a ottenere il riconoscimento dop. Ed è anche il pane più noto. Altamura infatti è la Città del Pane per antonomasia. Non solo perché su 72 mila abitanti ha più di 50 panifici artigianali, ma perché produce ed «esporta» pane come nessun’altra. In quantità industriali. I panifici però diminuiscono, negli ultimi dieci anni hanno chiuso bottega venti artigiani del pane. Cosa è accaduto? Che il pane continua ad essere buonissimo, ma la dop non ha funzionato, o meglio, è stata tradita, è diventata soltanto un marchio, il veicolo pubblicitario di chi produce pane industriale e non artigianale, cosicché sono andati a farsi benedire la tradizione, la cultura materiale, l’Arte bianca e i tanti piccoli panificatori che, se producessero pane dop come vuole il curatissimo e ottimo disciplinare Ue, sparirebbero.
Cultura ed economia, dicevamo. Ebbene, il pane dop di Altamura, dice il disciplinare, è ottenuto «mediante l’antico sistema di lavorazione (lievito madre o pasta acida o sale marino o acqua) e dall’impiego di semole rimacinate delle varietà di grano duro coltivato nei territori della Murgia nord-occidentale, tra Altamura, Gravina di Puglia, Poggiorsini, Spinazzola e Minervino Murge».
Se lo si produce con il grano canadese, russo, argentino o ucraino, magari aggiungendovi lievito di birra, è buono lo stesso, ma non è dop. E costa la metà di un pane dop. Non solo. Matvejevic (chi scrive può testimoniarlo in prima persona) esultava di fronte al disciplinare che per il pane dop prescrive di cuocerlo «in forni alimentati a legna e a gas», di impiegare soltanto «semola rimacinata di grano duro delle varietà Appulo, Arcangelo, Duilio, Simeto da sole» e di utilizzare macchine in grado di rompere «le cellule dello strato aleuronico» del chicco di grano, cioè il sottile strato di cellule tra la parte esterna (la crusca) e la parte interna (l’endosperma, o amido), «che permette di impregnare la semola rimacinata del prezioso olio di germe».
E poi il tempo e la manualità. Il tempo di cui il lievito madre ha bisogno per riposare e crescere è incompatibile con la produzione industriale. Così come la manualità, che infatti va scomparendo per lasciar posto alla catena di montaggio di un «pane dop» che di dop ha soltanto il bollino e nemmeno più i fornai. Lo sanno al ministero delle Politiche agricole e dell’Alimentazione? Perché sembra che al Consorzio di tutela e alla Bioagricert, la società che dovrebbe controllare, interessino solo le «carte a posto» in vista di possibili finanziamenti dal Pnrr. Non la realtà, non il patrimonio «pane», ma le carte.