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 2022  ottobre 14 Venerdì calendario

Intervista ad Alan Sorrenti

Sandra CesaraleIl cantautore: quella notte a Milano a cantare con Grace Jones

L’ingresso fu trionfale. Settembre 1979, l’Arena di Verona si accende per il Festivalbar. «Varcai l’entrata dentro una Rolls Royce decapottabile color sabbia. Era di un mio amico che aveva appena comprato un sacco di quadri, e li aveva stipati tutti dentro l’auto».
Sicuramente non erano croste prese al mercatino.
«No, ma non erano mie. Però l’apparizione fu scenografica, follia mista a esibizionismo».
Alan Sorrenti quel Festivalbar lo vinse con Tu sei l’unica donna per me. Erano i suoi anni pazzi e dorati. Tagliati i capelli lunghi, rasata la barba e abbandonati i vestiti hippie per gli eleganti completi bianchi disegnati da Gianni Versace, il ventinovenne metà napoletano e metà gallese sbancava le classifiche (non soltanto italiane) con il suo iconico falsetto cantando: Noi siamo figli delle stelle/senza storia senza età, eroi di un sogno; oppure chiedendosi struggente: Non so che darei/per fermare il tempo. Ascesa, caduta e rinascita di un uomo, che ha vissuto fra l’Inghilterra, l’Italia e gli States. E che oggi, a 71 anni, apre un altro capitolo della sua vita con un album, Oltre la zona sicura, e un tour.
La sua storia parte dall’Italia.
«Da Napoli, dove sono nato e in parte cresciuto. Lì mi sentivo uno straniero, mamma gallese, Gwendoline, detta Gwen, e papà napoletano, Francesco. Indossavo jeans e pellicciotto per mettere insieme le mie anime. In quella città volevo stare il meno possibile. Per fortuna spesso visitavo i nonni nel Galles. Eppoi mia madre lavorava alla Nato di Bagnoli, lì c’era il profumo dei dolci, la musica che arrivava dagli uffici... quando varcavo quei confini trovavo l’America. A 16 anni, per farmi imparare bene l’inglese, mi iscrisse a una scuola privata. A Folkestone, sulla Manica».
Di nuovo: un’altra vita.
«Mi sono tuffato in una realtà diversa. Un mio compagno di classe un po’ ribelle aveva trovato il modo, la sera, per impossessarsi dell’automobile della direttrice. Scendeva giù, in città, e io mi accodavo. Quando si aprivano le porte dei pub ascoltavo la voce di velluto di Otis Redding e le canzoni dei Beatles. Una sera, davanti a un locale di musica dal vivo vidi una fila incredibile, riuscii a entrare e c’erano sul palco tre ragazzi che suonavano. Alla fine del concerto seppi che erano i Cream con Eric Clapton. Quelle erano le onde che mi facevano vibrare».
Era un ribelle?
«Sì, ma sono riuscito a contenermi fino a 18 anni. Quando da Folkestone tornavo a Napoli, mi esibivo con I Volti Senza Nome. Andavamo forte. A Londra avevo visto i concerti dei Family. Il cantante a un certo punto prendeva l’asta del microfono e la scagliava contro il pubblico in delirio. Lo copiai, in effetti funzionava».
Sai gli incidenti...
«Nemmeno uno. Gli spettatori e il proprietario ci amavano. Un po’ meno i Cuori di Pietra, il gruppo che suonava prima di noi e ci prestava gli strumenti. Quando mi vedevano erano terrorizzati ma non mi dicevano mai di no».
I suoi genitori erano contenti di questo figlio sovversivo?
«Per me avrebbero voluto altro. Tanto che mi ero iscritto a Medicina. Un esame solo, passato a pieni voti. Gli volevo dimostrare che non ero mica scemo. Però mi lasciavano libero, merito di mamma e del suo spirito democratico. Una sola cosa la sconvolse».
Quale?
«Era terrorizzata che perdessi il mio accento inglese e iniziassi a parlare americano».
E papà?
«Dipendente dell’azienda tranviaria e disegnatore, era più rigido, ma non aveva un carattere forte... lasciava correre. Eppoi da giovane cantava pure lui, incise un disco. Quando, durante la Seconda guerra mondiale, fu imprigionato in Inghilterra lo facevano esibire. Ma la fine del conflitto ridimensionò le sue ambizioni. Credo che la musica faccia parte del Dna di famiglia: mia sorella Jenny canta e pure mamma, al college, durante la festa di fine anno, quando si elegge la reginetta del ballo, salì sul palco».
È vero che offrì uno spinello a Nino Manfredi?
«Questa non me la ricordo. E mi pare strano che lo abbia fatto, non mi sopportava tanto».
Perché?
«Per qualche anno sono stato fidanzato con sua figlia Roberta. Manfredi era all’apice della carriera, aveva girato un film come Per grazia ricevuta, io ero un ventenne che suonava. Lo capisco, le mie visite a casa sua gli rompevano la concentrazione. Sua moglie Erminia diceva che la mia musica era terapeutica».
Napoli negli anni Settanta era un fiume di creatività. Chissà quanti incontri.
«Con Tony Esposito suonavamo nel magazzino di stufe di mio padre, che pensava sempre a lavorare. Al contrario di me. E poi la Nuova Compagnia di Canto Popolare, Roberto De Simone, Peppe Barra, Eugenio ed Edoardo Bennato. Le storie si intrecciavano. Pino stava al quartiere Sanità, più soul del Vomero, dove vivevo io».
Pino Daniele?
«Lui. Un po’ più piccolo di me, lo incrociavo per le scale di casa mia. Io salivo e lui scendeva, un ragazzo con una gran massa di capelli neri. Andava a suonare con mia sorella. Un paio di mesi prima che morisse mi invitò a un suo concerto a Napoli. Ero contento di riabbracciarlo dopo tanti anni. Una persona piena di entusiasmo e progetti. Dietro le quinte mi confessò che voleva ricreare il Neapolitan Power».
In America come c’è finito?
«Andai con il produttore Corrado Bacchelli per incidere il mio terzo album. Fu un viaggio rocambolesco. Non avevamo mica soldi, allora prendemmo un aereo da Roma a Lussemburgo, poi ci fermammo a Bruxelles, da lì fino a Reykjavik, in Islanda, dove nevicava così forte che siamo rimasti bloccati per un giorno. Alla fine riuscimmo a volare a New York. Mi spiazzò, sembrava Napoli con i grattacieli. Dormimmo al Chelsea Hotel, quello frequentato da Bob Dylan, Leonard Cohen e Janis Joplin. L’impatto fu insolito e spettacolare: mi trovai di fronte il grande jazzista Sun Ra. Era con la sua tribù, una folla di persone. Pensai: questo viene da un altro mondo».
A San Francisco si ritrovò nella stessa stanza di Santana.
«Per un’intervista a due: erano gli anni che vestiva di bianco, parlammo di spiritualità. Lui stava sulla cima di una montagna. Io in basso».
Dopo è arrivato a Los Angeles.
«Il mondo che cercavo, un’altra dimensione. Lo capii appena si aprì il portellone dell’aereo e vidi le palme. In tasca avevo il contatto di Jay Graydon, il produttore di Toto, Manhattan Transfer, Al Jarreau. Me l’aveva dato il mio tecnico del suono di San Francisco prima di finire sdraiato sulla consolle per problemini con l’alcool».
Che atmosfera c’era?
«Quando non si lavorava si andava nei club. Una volta incontrai il fonico di Stevie Wonder che stava impazzendo perché il grande Stevie lo chiamava anche in piena notte. Spesso mi fermavo a dormire nell’ex casa di Humphrey Bogart, acquistata dal mio produttore dell’epoca, Greg Mathieson. Una villa vuota perché lui e la moglie, con i loro sei figli punkettoni, non avevano i soldi per rimetterla a posto. Quelli erano anni incredibili, esagerati e inaspettati. Capitava di svegliarti la mattina e non sapevi dov’eri. Ricordo il manager cinese di una ragazza che aveva passato la notte con me, aspettò tutto il tempo fuori dal portone. Come cantavano gli Eagles: la vita nella corsia di sorpasso sicuramente ti fa perdere la testa».
Nel 1977 scrisse «Figli delle stelle».
«Non è nata all’improvviso, ma l’ispirazione arrivò in America. Ero nelle stelle non soltanto in senso fisico, prendevo parecchi aerei, ma anche per l’energia e la magia che trasmetteva Los Angeles. Quell’anno uscì Star Wars di George Lucas, feci la fila a un cinema, il Sunset Boulevard era un luccichio continuo. In Italia la presentai per la prima volta al Divina di Milano, un club gay. Quella sera c’era anche Grace Jones che cantava la Vie en Rose. Per me quella canzone rimane una rivelazione, sono ancora un figlio delle stelle».
Il successo le ha sballato l’esistenza?
«Volevo gestire la mia vita e non ci riuscivo più. All’inizio la fama è un gioco divertente, un bel film di cui sei il protagonista. Dopo viene fuori una follia autodistruttiva, cominci a essere così incasinato e fatto che non puoi più creare quello che vuoi».
Nel 1983 la sua ex moglie l’accusò di uso e spaccio di stupefacenti. Ci fu il processo, la condanna.
«Nella vita si fanno degli sbagli. Ma dopo il vuoto, nel 1988, ho cominciato una rivoluzione umana, sono diventato buddhista della Soka Gakkai International. Da quel momento c’è un altro Alan».
Un errore che non rifarebbe?
«Non mi sposerei». Ride e aggiunge: «Ora lo farei con la mia luce magica, la mia compagna Barbel: una cerimonia speciale, niente di civile o religioso»
Avete chiamato vostro figlio Sky. Il cosmo ritorna.
«Sky Julian Markus, ha 19 anni, due passaporti e due cognomi. Mi ha spinto a incidere il nuovo album».
Lo ha intitolato «Oltre la zona sicura». Perché?
«Stiamo entrando in una fase nuova, ignota e misteriosa dove certi riferimenti sono svaniti. Ci troviamo ad affrontare delle sfide che ci portano a superare i nostri limiti».
Lei quando ha superato i suoi?
«Tante volte. Ricordo un viaggio alle Hawaii: mi sono lanciato con una carrucola su una corda tesa sopra un precipizio. Ma mio figlio si era buttato e l’ho seguito. Esperienze che vanno provate. Uso la mia vita al meglio, diceva Bowie».