Avvenire, 14 ottobre 2022
Lo zibaldone di Patricia Highsmith
È un ponderoso, straordinario ’zibaldone’ il volume degli appunti di Patricia Highsmith, una raccolta che copre l’arco di più di mezzo secolo di presenza e militanza: Diari e taccuini (1941-1995) (a cura di Anna von Planta, traduzione di Viola Di Grado). La scrittrice statunitense, nata in Texas nel 1921 e morta a Locarno nel 1995, si era fatta apprezzare sin da giovane come autrice di suspense (dal suo primo romanzo, Sconosciuti in treno, 1949, Alfred Hitchcock trarrà due anni più tardi il film uscito in Italia con il titolo L’altro uomo), per poi contaminare il genere poliziesco con una produzione di tipo psicologico tesa a penetrare le angosce del mondo contemporaneo.
Pubblicamente Patricia Highsmith non aveva mai parlato molto di se stessa e neppure delle ragioni del suo trasferimento in Europa all’inizio degli anni Sessanta, dove è vissuta appartata fino alla scomparsa: prima in Inghilterra, poi in Francia e infine in Svizzera, in fuga dalla cultura e dalla società statunitensi che giudicava provinciali, forse anche per poter vivere lontana dai riflettori la propria omosessualità (in un’epoca in cui essa era ancora segnata da un forte stigma sociale). Alcuni mesi dopo la morte, la sua editor, Anna von Planta, ha ritrovato tra le sue carte le oltre ottomila pagine manoscritte che formano questi Diari.
Testi che consentono al lettore di entrare nel mondo segreto della scrittrice, nella sua vita intima, ma anche nell’officina, nel laboratorio di narratrice, oltre che di ripercorrere in presa diretta le tappe di una vita errabonda e inquieta.
Negli anni giovanili – i primi anni Quaranta del secolo scorso – Patricia sperimenta in maniera apparentemente spensierata la vita mondana dei locali del Greenwich Village di New York: tra le sue frequentazioni spiccano nomi eccellenti, come quelli di Truman Capote e Flannery O’Connor. Sono anni euforici e vitalistici, così diversi da quelli, cupi e sconfortati, dell’ultima parte del soggiorno svizzero, quando sopravvive per una decina d’anni a un intervento chirurgico per un cancro ai polmoni. La paura della morte viene esorcizzata per il tramite dell’ironia: «Alcuni monaci – i certosini dormivano nelle loro bare, preparandosi alla morte, esaminandola giorno e notte. Io preferisco l’elemento sorpresa! Si trascorre la vita come sempre, poi la morte giunge all’improvviso, forse, o dopo una malattia di due settimane. Così sarebbe più simile alla vira, imprevedibile» (6 ottobre 1993). Fu invece a Positano che nacque – all’inizio degli anni Cinquanta – il personaggio di Tom Ripley, l’antieroe ambiguo e affascinante che la renderà celebre, anche per le fortunate trasposizioni cinematografiche.
Dagli appunti vergati negli anni da Patricia emerge uno sguardo originale sul mondo, sulla società, sulla condizione femminile, sul fluire del tempo, sui sentimenti e sulle emozioni personali, con un desiderio costante di affermarsi nella propria autonomia di donna contro le convenzioni del tempo, ma anche la difficoltà
a intraprendere strade controcorrente: «Vivere sola, completamente sola. La noia non esiste. Né la solitudine nel senso comune. Solo la tensione, il tempo, il ritmo si spegne: è sufficiente. La vita diventa un lento veleggiare. Personalmente non credo di avere il talento di scongiurare la follia in solitudine (se la follia in essa dovesse sopraggiungere). Pensavo di averlo. Forse do troppa importanza ai dettagli. Questo è un male, così come lo sono l’amore per la libertà e per gli spazi aperti, per chi è confinato in solitudine» (15 ottobre 1951).
Spesso le riflessioni di tipo esistenziale si intrecciano a quelle letterarie: «La scrittura, naturalmente, sostituisce la vita che non posso, che non riesco a vivere. Tutta la mia esistenza è ricerca di un equilibrio che non esiste. Per me. Ahimè, ho ventinove anni, e non posso sopportare più di cinque giorni della vita che ho inventato pensandola ideale» (17 maggio 1950). E ancora: «Per me è inconcepibile ’combattere’ per il proprio amante o per qualcuno che si ama. O la gente viene da te e resta, o non viene affatto. Non credo che le persone possano essere trattenute da macchinazioni, o rubate ad altri, e così via. Il che elimina molte, moltissime trame romantiche per quanto mi riguarda, perché non potrei nemmeno immaginarle abbastanza bene da scriverne» (23 luglio 1958). Un pensiero che dice del legame stretto tra vita e letteratura: la creatività ha bisogno di fondarsi su una materia che si colloca nell’esperienza diretta, in ciò che sta veramente a cuore a chi scrive