La Stampa, 13 ottobre 2022
Il problema delle scorie nucleari in Italia
Mentre ci si accapiglia sul ritorno al nucleare, caldeggiato ora anche da Greta Thunberg, l’Italia è ancora li a sfogliare la margherita su dove mettere in sicurezza quelle circa 100 mila tonnellate di rifiuti radioattivi, oggi stipati in depositi di fortuna o dentro le stesse vecchie centrali nucleari.
Da alcuni giorni circolano cartine apocrife delle aree idonee. La mappa Cnai che ridurrebbe per ora da 67 a 58 i siti tra i quali scegliere quello idoneo ad ospitare quell’araba fenice che dopo oltre vent’anni è diventato il deposito unico nazionale delle scorie radioattive. Qualcosa come 50 mila tonnellate di rifiuti considerati di basso e medio livello di radioattività, provenienti principalmente dalle quattro centrali nucleari dismesse. Ai quali si aggiungono 28 mila metri cubi prodotti dal settore medico e industriale, più altri 17 mila prodotti da altre attività, come quelle di ricerca. Dalla originaria mappa messa a punto da Sogin, la società di Stato incaricata del decommissioning, ossia dello smaltimento dei rifiuti nucleari, sarebbero state depennate le aree della provincia di Torino - Rondissone e Carmagnola - che pure nella prima mappatura rientravano tra quelle giudicate altamente idonee. Confermati sarebbero invece i siti dell’alessandrino, tra i quali quelli di Castelletto-Quargnento e l’area Bosco Marengo-Novi, le uniche ad aver conseguito votazione piena con lode per ospitare un deposito che però nessuno vuole, ma dal quale dipende la messa in sicurezza di questa montagna di scorie radioattive che rischiano di diventare da subito un’altra patata bollente per il nuovo governo. Dal ministero della Transizione ecologica smentiscono qualsiasi depennamento, «perché l’istruttoria è tutt’ora in corso». E non si concluderà nemmeno così presto, visto che come comunicato proprio dal Titolare del dicastero, Roberto Cingolani, la scelta finale non avverrà prima del dicembre 2023, mentre il deposito dovrebbe diventare operativo nel 2029. Ma l’altra data da cerchiare in rosso è il 2025, perché se non ci si darà una mossa avviando per allora i lavori, l’Italia incapperà nel procedimento d’infrazione che la Commissione Ue è pronta ad aprire se continueremo ad accumulare ritardi.
«Andiamo a rilento perché la gestione dei rifiuti radioattivi è sempre andata avanti con la logica del "tanto ci pensa il prossimo governo"», lamenta il presidente di Legambiente, Stefano Ciafani. «Intanto enormi quantità di rifiuti radioattivi si trovano sparpagliati in decine di siti provvisori, alcuni inidonei allo scopo, altri decisamente pericolosi. Comer quello della Cemerad a Statte, in provincia di Taranto, dove nel capannone arrugginito di un’azienda oramai fallita sono stipati migliaia di fusti contenenti materiali radioattivi», denuncia sempre il presidente di Legambiente. Per il quale «Sogin è colpevole di gravissimi ritardi nell’opera di smantellamento delle centrali, mentre il governo dovrebbe coinvolgere con più trasparenza i territori».
Facile a dirsi, meno a farsi, perché fin dalla pubblicazione della prima mappa dei siti candidati ad ospitare il deposito nazionale è stata tutta una sollevazione di scudi da parte delle Regioni e dei Comuni interessati.
«Netta contrarierà» l’ha espressa il consiglio regionale della Toscana, mentre quello pugliese ha approvato all’unanimità una mozione che impegna la giunta regionale a far desistere il Governo, anche facendo fronte comune con le regioni confinanti, come la Basilicata, anch’essa tra le aree candidate a quello che nessuno giudica un premio. La Sicilia a sua volta ha messo le mani avanti appellandosi «alle caratteristiche sismiche, ambientali» e persino "culturali" del suo territorio. Un no deciso lo hanno espresso anche i comuni sardi segnati in rosso dalla mappa di Sogin, mentre in Piemonte affianco ai sindaci dei comuni interessati sono scesi in campo i parlamentari locali, la regione e la Città metropolitana di Torino. Nessuna area idonea ha invece individuato la regione Lazio, favorevole al deposito unico, ma ovviamente altrove.
Storie già viste con termovalorizzatori e gassificatori, anche se il deposito nazionale, nei progetti di Sogin, diventerebbe anche un centro di eccellenza per la ricerca scientifica, con la possibilità di riutilizzare in ambito medico parte delle scorie. Progetti che non sembrano intaccare il fronte del no con il quale spetterà ora al governo Meloni fare i conti.