il Fatto Quotidiano, 13 ottobre 2022
I greci e l’eros omosessuale
“Le donne gettano un occhio lascivo/ sui miei enormi attributi, e con parole/ e col tatto mi invitano a giacere,/ offrendo invano la fica, le guance;/ poi, arrabbiate, mi danno di impotente,/ fino a che una, indovinando in pieno,/ indica il culo, e poi sussurra ‘un Greco!’ –/ l’amore di un gran fusto è il mio piacere!”. Nella sua sboccata ingenuità, la Ballata della pederastia passiva di Aleister Crowley (1875-1947) è uno dei frutti più maturi di una moda letteraria e culturale spesso dimenticata da quando la svolta impressa da Michel Foucault ha imposto un nuovo modo di considerare l’omosessualità come fenomeno sociale e politico.
Per secoli quella moda, nata già nell’Umanesimo con certi epigrammi greci di Angelo Poliziano, e poi arrivata per li rami fino al delizioso Antinoo di Fernando Pessoa, ha invariabilmente vestito in abito greco la poesia dedicata all’amore tra persone dello stesso sesso, rifacendosi a un’eredità bifronte. Da una parte stanno i tanti versi dedicati al fenomeno dagli autori antichi, da Saffo a Teognide, dagli scanzonati pastori di Teocrito e di Virgilio ai vivaci epigrammi di Stratone nel XII libro dell’Antologia Palatina: un universo molteplice, in cui la relazione amorosa ha spesso un forte elemento “educativo” e sociale e si articola in simposî, tíasi, trasmissione di valori condivisi, differenze d’età. Dall’altra parte stanno i miti: il personaggio più fortunato è Ganimede, rapito da Zeus, e Orfeo che in Tracia coglie “la primavera del sexo migliore, quando son tutti leggiadretti e snelli” – ma s’innamora di un uomo anche il Narciso di Ovidio, che specchiandosi nella fonte “cerca e viene cercato, e nel contempo appicca incendi e brucia”; e poi c’è la vera e propria “mitizzazione” di personaggi storici come la stessa Saffo o come Antinoo, il celebre favorito di Adriano. Ganimede rimane però il più popolare: in un anonimo “contrasto” latino scritto in Francia nel XII secolo, si trova a difendere la causa dei gay contro un’omofoba Elena: “Maschio a maschio si unisce con più elegante copula”, altro che “l’antro che fa la puzza più tremenda del mondo”.
“Greek love”, “amour grec”: con questo nickname che dice e non dice si definisce un universo che spazia dai bucolici languori di certa poesia pastorale del 500 inglese (ben noti a Shakespeare, che pure nei non meno omoerotici Sonetti rifugge dal calco dell’antico) fino alle ottocentesche “mascherate elleniche” e libertine dei colleges di Oxford (a quanto sembra, invero, ancor oggi in voga), in un’atmosfera decadente e carica di eros animata da Symonds coi fruscii dei suoi ragazzi, da Housman con il suo Narciso dello Shropshire, da Oscar Wilde col suo scandaloso processo. Un’atmosfera che dà spazio anche alle donne, non solo in quanto viste dagli uomini (la flessuosa Anattoria di Swinburne, le Canzoni di Bilitis con cui Pierre Louÿs crea una Saffo più vera del vero), ma anche in quanto voci proprie capaci di esaltare l’amore lesbico (Renée Vivien, o le due autrici inglesi che scrivono sotto lo pseudonimo di Michael Field). È la poesia di quell’epoca, il tardo Ottocento, che poggia su fondamento greco le Ricerche sull’enigma dell’amore tra uomo e uomo di Ulrichs (il “terzo sesso”), e che convoca l’antico a legittimare le tendenze dell’oggi, come farà poi ancora Gide nel suo Corydon.
Con qualche sporadica enclave francese, è soprattutto l’inglese la lingua di questo universo poetico a un tempo neoclassico ed eretico, che porta a effetto le suggestioni adombrate in un poema lungamente (ma a torto) attribuito a Lord Byron, il Don Leon: lì si proiettano in un “oriente” lontano (l’Atene ancora turca) sia l’elegante adescamento nei confronti dei graziosi adolescenti sia i ragionamenti sul pedigree culturale del fenomeno, consacrato da Socrate, Orazio, Epaminonda, e reso una colpa da “un Salvatore che redimeva il mondo” (anche se poi tra papi e cardinali…). Decenni dopo, sarà proprio immergendo l’omosessualità in un mondo greco e orientale a un tempo – la sua mitica e concretissima Alessandria d’Egitto, quella di Miris, di Marco Antonio e di Iasís, ma anche del ventenne adocchiato in un retrobottega o del marinaio nello specchio di una camera sporca –, sarà proprio allontanando scientemente la propria poesia dall’eredità marmorea o posticcia del “Greek love” per creare versi “lunari” a ponte tra le epoche, che Costantino Kavafis saprà dire l’ultima parola sull’amore, la “voluttà bruciante” e le sue attese, i suoi divieti, i suoi rimpianti, le sue nostalgie.