Corriere della Sera, 13 ottobre 2022
Intervista a Vittorio Sgarbi
Il Parlamento senza Vittorio Sgarbi.
«Sarà un’aula sorda e grigia».
Un bivacco di manipoli.
«Scherzi a parte, i Parlamenti non contano più niente. Contano solo i governi».
Lei entrò a Montecitorio nel 1992.
«C’erano ancora i comunisti, di cui diventai subito amico. Bellissimi: Napolitano, Chiaromonte, Reichlin, Trombadori, che era più craxiano di Craxi».
Poi c’era Craxi, quello vero.
«L’animale ferito. Fui il solo, quando Bettino chiamò a correi tutti i deputati per Tangentopoli, ad alzarmi a dire che aveva ragione lui. Fu allora che mi notò Berlusconi».
Andreotti?
«Dalla tribuna di Palazzo Madama gridai “assassini!” ai senatori democristiani che votavano per mandarlo a processo per mafia. Si offese Arrigo Boldrini, vecchio capo partigiano: pensava che ce l’avessi con lui per la strage di camicie nere a Codevigo».
Nel 2001 lei divenne sottosegretario alla Cultura.
«La destra aveva vinto nettamente, come oggi. E, come oggi, mezza Europa gridava al fascismo; in particolare i francesi. Li affrontai».
Come?
«L’Italia era il Paese ospite al Salone del libro di Parigi. Per il nostro stand feci ricostruire la Biblioteca palatina di Parma: la più bella del mondo. Catherine Tasca, figlia del fondatore del Pci, ministra della Cultura, che aveva giurato di non stringere mai la mano a Berlusconi, a me la strinse; ma dietro di lei c’erano i centri sociali, aizzati dallo scrittore Philippe Sollers e dal mio amico Bernard-Henri Lévy, che fecero una gazzarra pazzesca. Finimmo su tutte le tv d’Europa».
Lei è amico di Lévy?
«Da 35 anni. Ho portato il suo film a Venezia, ho presentato il suo libro su Sartre, che è meraviglioso. Ma di politica Bernard-Henri non capisce e non vuole capire nulla».
Perché?
«Perché è un filosofo, ed è del tutto disinteressato alla verità. Lo interessa solo la rappresentazione. Comunque quella volta a Parigi capii che, per essere accolti degnamente in Europa, occorreva un gesto di conciliazione».
E quale fu?
«Il grande museo della civiltà ebraica di Ferrara. Approvato all’unanimità dal Parlamento, primo firmatario Franceschini. Ora la Meloni dovrebbe fare la stessa cosa».
Cioè?
«L’errore fatale del fascismo furono le leggi razziali. Il nuovo governo dovrebbe erigere memoriali nei luoghi delle storiche comunità ebraiche spazzate via dalla deportazione: Pitigliano, Livorno, il ghetto di Venezia, Casale Monferrato... Poi serve un segnale sui migranti».
I migranti?
«I clandestini vanno fermati. Ma quelli che sono già qui non li puoi chiudere in un campo di concentramento. Devi metterli al lavoro nei borghi che stanno morendo, nelle botteghe che chiudono. Come ha fatto Mimmo Lucano a Riace».
Oltre alle leggi razziali, il fascismo ha commesso molti altri crimini ed errori.
«Vero. Ma ha costruito quartieri e città. Però soltanto Asmara, in Eritrea, è patrimonio dell’umanità, perché l’ha chiesto un inglese. Noi dobbiamo far diventare patrimonio Unesco la Sabaudia cara a Pasolini, l’Eur scenario felliniano, Tresigallo la città di fondazione studiata da Diego Marani, uomo di sinistra, direttore dell’Istituto di cultura a Parigi. La destra italiana finora è stata definita da un’identità dannata. Ora deve rivendicare gli antenati. Perché la grande cultura del Novecento italiano è a destra».
A chi pensa?
«Pirandello e Marconi. Giuseppe Berto e Alberto Burri, che erano insieme nel Fascist Criminal Camp in Texas: irriducibili. Ma anche tanti conservatori: Giovanni Guareschi, Giorgio De Chirico, Ennio Flaiano, Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Carmelo Bene, Elémire Zolla, Cristina Campo, Augusto Del Noce, Gino De Dominicis...».
Cosa c’entra De Dominicis?
«Mi chiedeva sempre di presentargli Berlusconi... Giorgia è cristiana? Celebri Giovanni Testori, di cui nel maggio prossimo cade il centenario della nascita. E poi Antonio Delfini, con il suo Manifesto per un partito conservatore e comunista».
Comunista e conservatore non è un ossimoro?
«Per nulla. Pasolini non era forse un comunista conservatore?».
Lei ha votato la fiducia al primo governo Conte.
«Vero. Dissi: “Vedo il vostro futuro: disordine e ignoranza. E io, nel disordine e nell’ignoranza, prospero”. Fui facile profeta».
E non ha votato la fiducia a Draghi.
«Lui ci rimase malissimo. Mi chiese: perché ti sei astenuto?».
Già, perché?
«Il suo era il più politico dei governi; mentre credo che la Meloni farà un governo molto tecnico. Draghi aveva nominato ministri i capi dei partiti, anzi i capi delle correnti, per salire dopo un anno al Quirinale. Non è andata; e il suo governo è finito allora».
Casini l’ha sconfitta nel collegio di Bologna, e lei si è vendicato con una battuta crudele.
«Ho solo detto che lui ha visto in vita sua una frazione della f. che ho visto io. Ma ho sbagliato. Se mi fanno ministro, prometto che per cinque anni eviterò l’argomento; di cui peraltro Casini è cultore appassionato. Anche se io mi confronto semmai con le millecinquecento donne di Mitterrand».
Di chi è il record?
«Castro: 35 mila».
Ma gliele portavano.
«Sì. Però la sua fu una leadership anche erotica. Pensi anche al mito di Che Guevara, il James Dean rosso. Questa è una cosa che mi ha insegnato il mio unico maestro: Francesco Cossiga. Il sesso della politica. Un leader deve essere sexy, nel senso di attrattivo, seduttivo. Craxi era sexy, Berlusconi era sexy. Letta non è sexy, e ha perso. La Meloni è sexy, e ha vinto».
Lei vuol fare il ministro?
«Mi piacerebbe, ma non della Cultura; del Patrimonio. Il modello è l’ultimo statista italiano ad aver incrociato politica e cultura: Spadolini. Fu lui a volere il ministero dei Beni Culturali. In cui dopo hanno infilato di tutto: turismo, spettacolo, sport... Ora la Meloni dovrebbe tornare alla tripartizione spadoliniana».
Sarebbe?
«Primo: Istruzione. Secondo: Università, Ricerca e Cultura: mostre, musica, convegni. Lì ci vorrebbe un Cacciari di destra. Terzo: Patrimonio. Come in Francia. Un ministero che si occupa dei beni: musei, chiese, quadri. Per farli diventare idee. Il patrimonio genetico della nazione».
Addirittura.
«Michelangelo e Caravaggio siamo noi. I grandi artisti che hanno fatto l’Italia vivono dentro di noi. Solo che noi non lo sappiamo. Quindi: musei gratis. Come a Londra. Una grande operazione popolare. Perché un napoletano deve pagare per entrare a Capodimonte, un milanese a Brera? Gli Uffizi non devono fare causa a Jean-Paul Gaultier, quando si ispira alla Venere di Botticelli; perché allora dovremmo chiedere i danni agli eredi di Warhol, che riprodusse il Cenacolo di Leonardo. Da sempre l’arte genera arte».
Altre idee?
«D’intesa con il mio amico Elon Musk, possiamo far mettere le sue tegole fotovoltaiche su tutti i tetti degli edifici moderni. Diventeremmo una superpotenza energetica».
Cosa intende per moderni?
«In Italia abbiamo 25 milioni di edifici. Dodici milioni sono stati eretti prima del 1959: dai templi di Agrigento alla villa costruita a Sabaudia da Tommaso Buzzi per il conte Volpi: l’ultimo edificio degno di questo nome. Quelli li dobbiamo difendere con le unghie e coi denti».
E gli altri tredici milioni?
«Tutti fatti dal 1960 in poi. E tutti possono mettere sui tetti le tegole di Elon Musk».
È amico pure di Elon Musk?
«Ha diffuso il mio discorso a Montecitorio sulla libertà in decine di lingue, compreso il cambogiano. L’hanno ascoltato in 260 milioni».
Ora che lei non ha più lo scudo del Parlamento, non teme la rivincita di qualche magistrato?
«Io non ho paura di nulla. Mi difendono le mie idee».
Non possiamo non ricordare la canzone che le dedicò Dagospia, sulle notte di Vecchio scarpone: «Vecchio Sgarbone quanti quadri hai rubato/ e quanti libri non si trovano più...».
«Ho 280 mila libri. Tutti donati o comprati: nessun critico d’arte ne ha tanti. Il resto è privo di senso. Sono pure diventato amico di Tonino Di Pietro, dopo che l’ho risarcito per chiudere le nostre cause».
Quanto?
«Me la sono cavata con 300 mila euro. Il valore di un pregevole quadro barocco».
Qual è il più bel quadro del mondo?
«Las Meninas di Velazquez. Dentro c’è la pittura di ogni tempo: Giotto, Manet, Bacon».
Era una domanda trabocchetto. Gliela faccio da 25 anni, e lei ogni volta cambia quadro. L’ultima volta aveva indicato la Pala di Brera di Ercole de’ Roberti, «un Piero della Francesca inquieto».
«Non volevo cadere nel conflitto di interessi: sto cercando di portarla alla grande mostra sul Rinascimento a Ferrara che sto allestendo per il prossimo febbraio».