Corriere della Sera, 13 ottobre 2022
Delitto Macchi, a Binda un indennizzo da 300 mila euro
Il giudizio che valuta se indennizzare a titolo di «riparazione» una «ingiusta detenzione», e che cioè deve solo verificare se un arrestato poi definitivamente assolto abbia concorso o meno con il proprio comportamento a indurre gli inquirenti all’errore di arrestarlo, non può trasformarsi in «una sorta di quarto grado di cognizione», non può diventare la rivincita che i magistrati d’accusa (in questo caso la Procura Generale di Milano) provano a prendersi su una mai digerita assoluzione. Perciò il massimo per legge, e cioè 235,87 euro per ciascuno dei 1.286 giorni di custodia cautelare patita tra il 15 gennaio 2016 e il 24 luglio 2019, va ora a indennizzare con 303.328 il 54enne Stefano Binda dopo che il 24 luglio 2019 la Corte d’Appello di Milano e il 27 gennaio 2021 la Cassazione hanno cancellato l’ergastolo inflittogli dalla Corte d’Assise di Varese il 24 aprile 2018, e definitivamente stabilito l’ultima parola sull’assassinio della 21enne studentessa Lidia Macchi nella notte tra il 5 e il 6 gennaio 1987 a Cittiglio (Varese): e cioè che a ucciderla con 29 coltellate non fu l’ex compagno di liceo e di Comunione e liberazione, indagato nel 2015 dopo avocazione del fascicolo varesino da parte della Procura Generale di Milano.
I 303 mila euro, senza ulteriori 50 mila che Binda chiedeva per «l’alone di discredito sociale» ma senza aver dato prova di «effetti negativi ulteriori rispetto alle per così dire fisiologiche conseguenze» di un arresto, è stato riconosciuto ieri dalla V Corte d’Appello all’istanza dei legali Patrizia Esposito e Sergio Martelli: «Sei paginette che descrivono l’iter processuale come una sorta di delirio pericoloso di qualche inquirente dissennato», le aveva liquidate il sostituto procuratore generale Gemma Guadi nel parere contrario che tornava a propugnare «qualità e sovrabbondanza delle prove a carico di Binda». Ma così, obiettano i giudici Nova-Curami-Peroni Ranchet – «non si confronta con gli esiti della sentenza assolutoria, limitandosi a richiamare argomenti della condanna di primo grado del tutto superati» poi dalle assoluzioni. «Non solo non è stato ritenuto provato che Binda fosse l’autore della poesia “In Morte di un’Amica”, ma neppure che l’anonimo autore fosse l’assassino»; «del tutto irrilevanti sono state ritenuti i testi» d’accusa; «l’alibi è stato ritenuto provato, o comunque non ne è stata provata la falsità»; «certo non può essere» usato contro lui «l’essersi avvalso della facoltà di non rispondere». E se la pg Gualdi ventilava «sei diverse versioni dell’alibi fornite da Binda a amici e conoscenti», ora i giudici rispondono che «ancora una volta» dovrebbe invece confrontarsi con «la sentenza assolutoria» che spiega che «Binda ha sempre dato una sola versione», e che la storia delle sei versioni è «risultato di un estrapolare, qui e là, affermazioni rese da altri, previa loro rielaborazione».