Corriere della Sera, 13 ottobre 2022
Per Casini il debutto numero 11
«Era da diverso tempo, all’epoca lavoravo all’ufficio Stampa e propaganda della Dc, che suggerivo al segretario Arnaldo Forlani di andare a parlare con Bettino Craxi di una certa questione. Passano i giorni, le settimane, ma niente. “Ha parlato con Craxi?”, gli chiedevo, dandogli sempre del lei. Niente, glissava. Finché un giorno, eravamo nell’aula della Camera, Forlani mi fa: “Vai tu a parlare con Craxi, digli che ti mando io”. “Ma io non lo conosco”, replico. E lui: “Ma lui sicuro conosce te. Vai!”. Raggiungo Craxi, che stava con De Michelis e Martelli. Il tempo di accennare alla questione e lui fa tipo un grugnito, che anticipa una serie di improperi. Non sapendo che pesci prendere, non avevo neanche trent’anni, decido di fare appello a un minimo di decoro: “Presidente – gli dico – se lei mi risponde così, è inutile che continuiamo a parlare”. Fu come una formula magica. Cambiò atteggiamento in un secondo, mi prese sottobraccio...».
Nel giorno del suo undicesimo primo giorno di scuola in Parlamento – tanti quanti sono le legislature che ha assommato nel suo curriculum, compresa quella appena nata – Pier Ferdinando Casini riavvolge il nastro dei ricordi di una vita passata dentro la Camera, che poi ha anche presieduto, e dentro il Senato, dove siede tutt’ora. La prima volta era stata il 12 luglio 1983, un anno e un giorno dopo la vittoria dell’Italia di Bearzot ai Mondiali di Spagna. Tanto per dire: Gorbaciov sarebbe arrivato alla guida dell’Unione sovietica due anni dopo l’ingresso nelle istituzioni di Casini, che sta ancora là.
L’Italia dei partiti, il meccanismo delle correnti, gli ingranaggi di precisione su cui si reggeva la democrazia. Quelle Aule in odore di sacralità. E l’antico adagio della Prima Repubblica secondo cui fuori dal tuo partito trovavi gli avversari, mentre dentro – semmai – potevano annidarsi i nemici. «Il primo voto, proprio il primo, fu per una comunista. Per Nilde Iotti presidente della Camera», ricorda oggi Casini. «Una donna dal carisma unico, alla cui esperienza alla guida di Montecitorio mi sarei richiamato diciotto anni dopo, andando io a presiedere la Camera». L’incontro faccia a faccia: «Fu per uno dei primi retroscena sui giornali, firmato da Augusto Minzolini. Aveva scritto che avevo votato in Aula al posto di un mio collega; che avevo fatto il “pianista”, insomma. Non era vero. Sentii violate le mie prerogative di deputato, pensi lei, oggi succederebbe ogni due minuti. Le scrissi, mi ricevette. “La tuteleremo”, mi disse nell’incontro».
E poi il primo voto per il presidente della Repubblica, 1985, l’anno di Cossiga. «Deve sapere», ricorda Casini, «che io avevo una grande stima per Saragat. Lo incontro dopo che aveva appena votato. E allora prendo il coraggio a due mani e inizio a seguirlo, con l’obiettivo di fermarlo e di presentarmi. Arrivo a pochi passi da lui e niente, all’improvviso mi manca proprio il coraggio e lascio perdere. Non mi sarebbe mai capitata un’altra occasione...».
Perché una volta, in quell’Italia così lontana, in quelle Aule così uguali ma così diverse da oggi, «certe cose non te le permettevi. Non ti sognavi nemmeno di proporti come sottosegretario se eri un neo-eletto, tanto per dirne una». Ancora avversari: Alessandro Natta, segretario del Partito comunista italiano. «Un giorno gli dissi che avevo frequentato il Liceo “Galvani” a Bologna. Lui, fine latinista, da lì in poi iniziò a parlarmi in latino. “Segretario, ma io non capisco il latino”. E Natta: “Scusa, ma tu non hai fatto il Galvani?”».
Quegli stessi corridoi in cui oggi si trovano le sue stanze, a Palazzo Giustiniani, Casini li calpestò la prima volta andando a trovare il vecchio Amintore Fanfani. «Intervengo nella direzione della Dc sul tema dei “Gip”, i gruppi di impegno politico, le sezioni di ambiente del partito nei luoghi di lavoro. Una questione all’apparenza laterale, di quelle che però alla vecchia guardia non sfuggivano. Martinazzoli mi disse che Fanfani voleva parlarmi e di raggiungerlo nel suo studio. Mi aspettava con una matita di quelle a doppia punta, rossa e blu. Prese il mio intervento in direzione e iniziò a scriverci sopra. “Ecco, mi aspetto che torni tra qualche giorno con tutte le correzioni fatte. Adesso puoi andare”».
In quarant’anni di Parlamento, Casini ne ha viste di ogni. Il cappio nell’Aula della Camera sventolato dal leghista Luca Leoni Orsenigo, Bettino Craxi e la chiamata in correità sul finanziamento dei partiti a cui gli altri risposero col silenzio, il sistema che cambiava, il vecchio che andava via, il nuovo che sarebbe arrivato. E qualche piccolo errore di valutazione: «Il giorno in cui approviamo il Mattarellum, che la Dc aveva congegnato per assicurarsi la maggioranza in Parlamento grazie ai voti del Sud Italia, all’uscita di Montecitorio incrocio Gianfranco Fini. Lui mi fa: “Oggi è una delle ultime volte che metto piede qua dentro”. La Dc sarebbe scomparsa, Fini stava per diventare uno dei protagonisti della scena politica». La storia, quella di Casini, va avanti. Il suo primo vicino di banco oggi è al Quirinale. «Entriamo insieme alla Camera, eletti per la prima volta nel 1983, entrambi assegnati alla Commissione Affari costituzionali. Tarcisio Gitti mi dice: “Ti dispiace se votiamo Mattarella capogruppo della Dc in quella commissione?”. Certo, guardandolo oggi, a com’è diventato empatico, mi capita di dirgli che la “grazia di Stato” esiste, eccome. Era così taciturno...».