Corriere della Sera, 12 ottobre 2022
Il banchiere e il tossicodipendente
Cos’hanno in comune il tossicodipendente marocchino Youssef Fahmi e il grande imprenditore vinicolo ed ex monarca della Banca Popolare di Vicenza Gianni Zonin? L’immigrato disoccupato, sbandato e schiavo dell’eroina e l’imprenditore-banchiere sono stati condannati alla stessa pena: poco meno di quattro anni di carcere. Per l’esattezza, il tossico si è beccato tre anni e otto mesi per avere preso per il collo un ragazzo rubandogli nel marzo 2020 uno smartphone per strada, il banchiere a tre mesi in più (tre anni e undici mesi in appello: la metà della condanna in primo grado) perché ritenuto il principale responsabile del buco di oltre 6 miliardi di euro della Bpv che ridusse sul lastrico 127 mila risparmiatori italiani concentrati soprattutto nel mitico Nordest. Due pesi e due misure così abissalmente sproporzionati da togliere il fiato.
Tanto più davanti alla lettura degli atti della commissione d’inchiesta usciti proprio in questi giorni. Basti prendere la deposizione in Parlamento di Marino Smiderle, il cronista (oggi direttore del Giornale di Vicenza) che più ha seguito tutta la vicenda. Dove si ricordano gli inaccettabili vuoti legislativi sulle responsabilità delle «società cooperative a responsabilità limitata non quotate, nel caso specifico, banche popolari non quotate» che permisero a chi le guidava «di rimanere al comando per decenni senza detenere quote di capitale significative» e costruire castelli di carta nel silenzio (se non talora tra gli elogi) di chi doveva controllare, inclusa Bankitalia. Fino al crac di Lehman Brothers, quando le banche precipitarono e gli azionisti della Popolare berica esultavano: «Noi siamo sempre attorno ai 60 euro!» Una quotazione casareccia. Fasulla. Che per altri cinque anni illuse tutti, fino all’obbligo della trasformazione in Spa imposto dall’Europa e introdotto dall’oggi al domani da Renzi, e tutto crollò. Travolgendo i risparmiatori che, imbrogliati dai funzionari delle filiali Bpv (loro stessi imbrogliati e rovinati dai vertici) avevano addirittura finanziato nuovi aumenti di capitale convinti di aver messi «i schei» al sicuro come fossero depositati «nel “libretto” o, come la chiamava Zonin, nella “musina”». Cioè il salvadanaio di cui si fidavano ciecamente perché veneto: «nostro, de nialtri». Un’illusione tradita.