Corriere della Sera, 12 ottobre 2022
Biografia di Alessio Boni raccontata da lui stesso
«Due cose non puoi scegliere nella vita: in quale luogo nascere e in quale famiglia. Io sono nato nell’ospedale di Sarnico in una famiglia proletaria, di piastrellisti», racconta Alessio Boni, che però non ha fatto il piastrellista. «Mio padre e i suoi parenti facevano questo mestiere a Villongo, e sarebbe stata una cosa normale per lui che io facessi altrettanto. Per un po’ l’ho accontentato, mentre frequentavo le lezioni serali all’istituto di ragioneria, ma mi sentivo ignorante, detestavo quel lavoro, quel tipo di studio e persino il paese che mi circondava. Ogni tanto andavo a piangere di fronte al vicino Lago d’Iseo e mi chiedevo: perché mi capita tutto questo?».
E dopo i pianti?
«Decisi: scappo, vado nelle forze dell’ordine. Faccio la domanda, mi prendono in Polizia. Ero contento, pensavo di diventare un Serpico, ma non mi piacevano tutte quelle gerarchie ingessate e scappo di nuovo, vado negli Stati Uniti e... vedrai, lavorerò in qualche ditta importante, farò import export, imparerò l’inglese... Invece faccio il lavapiatti, il babysitter, anche in nero, sì, cari americani, anche in nero! Ma i soldi per mantenermi non bastano mai e torno in Italia con le pive nel sacco. Non mi arrendo, il piastrellista proprio no e mi metto a fare l’operatore turistico, comincio ad appassionarmi nel creare quegli spettacolini per gli ospiti del villaggio. Riuscivo sempre a coinvolgere il pubblico. Il capo animatore, osservando le mie discrete capacità di intrattenimento attoriale, un giorno mi dice: perché non provi al centro? Io lo guardo e, siccome eravamo sul Gargano, gli rispondo: il centro di Vieste? E quello ribatte: ma no, il Centro Sperimentale di Cinematografia! Decido di nuovo: vado a Roma, per tentare lo scritto, tanto mi cacceranno... Invece passo lo scritto, poi la seconda fase e alla terza fatidica fase mi trovo davanti dei mostri sacri».
Chi erano?
«Luigi Comencini, Giulietta Masina, Mauro Bolognini... Esordisco, con voce impostata: buongiorno. E Comencini subito mi chiede: Bergamo o Brescia? Oddio!, penso: si sente così tanto? Credevo di non avere un accento così forte. E la selezione non la passo, però è un’iniezione di fiducia».
Fiducia? Ma se era stato bocciato!
«Sì, perché mi sono reso conto di quanto fossi ignorante. Così cerco lavoro, lo trovo come cameriere, poi mi iscrivo alla scuola di Alessandro Fersen e qui scopro che Stanislavskij non era il centravanti di una squadra di calcio russa, ma un pedagogo del teatro. Scopro anche, grazie all’insegnante di dizione, che avevo una cadenza dialettale forte: non mi ero mai sentito, me ne accorgo durante un saggio e per la vergogna credo di non aver parlato per due giorni».
Dunque, la sua passione per il teatro fu immediata?
«All’inizio volevo fare solo cinema. Il teatro mi sembrava una roba noiosa per vecchi. Però una sera degli amici romani mi propongono di andare al Sistina. Non c’ero mai stato e ho chiesto consiglio su come vestirmi, figuratevi la risposta... Assisto alla Gatta Cenerentola con Beppe Barra protagonista e mi si scoperchia il cervello: capii che volevo fare teatro e qual era la scuola più importante? L’Accademia Silvio d’Amico. Vado, mi iscrivo per fare il provino».
Con quell’accento dialettale e con il semplice diploma di ragioneria?
«L’accento lo avevo superato, grazie alla frequentazione della Fersen. Quanto al diploma da ragioniere, non era richiesto solo il liceo classico, anche se i miei colleghi mi chiedevano cosa significasse fare il piastrellista... Certo, mi sentivo un pesce fuor d’acqua... Fino al fatidico giorno del provino...».
Che succede?
«La commissione era severissima, erano mazzate... Mi è successa una cosa stranissima. Avevo preparato un brano da I sette contro Tebe, ma poco prima che toccasse a me non ricordavo nemmeno la battuta iniziale. Dieci secondi di terrore, una follia: mi vedo recitare dall’esterno, come se stessi in estasi. Sono arrivato fino alla fine senza rendermi conto di ciò che avevo fatto. Però superai la prova».
E il papà piastrellista come reagì al figlio che voleva fare l’attore?
«Si vergognava. I commenti dei paesani erano sprezzanti, gli dicevano: Alessio gira il mondo a spese tue? Io lo capisco, perché veniva dal dopoguerra, si era rimboccato le maniche, era riuscito a costruirsi faticosamente il suo piccolo impero, il negozio di piastrelle, un futuro sicuro per noi tre figli maschi. Si sentiva tradito e avvertivo il peso della sua disapprovazione: avevo i capelli lunghi, i jeans stracciati, giravo il mondo... uno scialacquatore di soldi, anche se mi mantenevo. Quando d’estate tornavo a casa, mi rimetteva a fare il suo lavoro, finché ho detto basta e poi sono arrivate le prime importanti esperienze con gli Strehler, i Ronconi...».
I suoi genitori venivano ad applaudirla?
«All’inizio non capivano cosa stessi facendo. Solo quando acquistai un po’ di visibilità nei primi film, se usciva la mia foto sul giornale, seppi da mia madre che papà ne comprava una decina di copie e le distribuiva a parenti e paesani. Mi fece tenerezza, era la sua rivalsa, come a dire: vedete, mio figlio non è un lazzarone, ha solo voglia di fare un altro lavoro. E la consacrazione arrivò con La meglio gioventù: alla presentazione al Festival di Cannes era presente la famiglia intera. Io mi giro e vedo mio padre, nordico, austero, commosso. Era orgoglioso di me, pur non riuscendo mai a dirmi: bravo».
I sogni americani archiviati?
«Assolutamente no, però mi accadde un episodio sgradevole. Avevo 24 anni, frequentavo ancora l’Accademia e la mia agenzia mandava in giro il mio curriculum per propormi a qualche produttore. Vengo contattato per un incontro in un mega hotel a Piazza di Spagna, dove un produttore americano stava cercando giovani attori per un nuovo progetto. Vengo accolto in una suite imperiale. Non mi esprimevo in un eccellente inglese, ma abbastanza buono e mi scelgono. Mi puzzava un po’ questa scelta: com’era possibile che prendessero proprio me? Comunque la fortuna può girare, allora parto per l’America e a New York vengo invitato a cena dal produttore in un altro meraviglioso hotel al Central Park. Mi spiega che intendeva fare di me un nuovo divo di Hollywood, però poi... inizia con le avances, dicendomi semplicemente: se diventi il mio amante, diventerai una star. Lo guardai scioccato. Ciò che mi aveva ingannato era che lo sapevo sposato e con un figlio, quindi non mi passava per l’anticamera del cervello la possibilità di una sua proposta sessuale. Riprendo l’aereo e ritorno all’Accademia».
Tra i numerosi personaggi del repertorio classico che ha impersonato, quale è stato quello più difficile da restituire al pubblico?
«Non è stato un classico, ma dico Walter Chiari. E non perché i personaggi delle tragedie greche sono facili, ma perché lo spettatore quei personaggi non li ha mai conosciuti, mai incontrati. Mentre Chiari lo conoscono tutti e persino la casalinga di Voghera poteva dire: no, questo interpretato da Boni non c’entra niente con il vero Chiari. Rievocarlo per me è stata l’impresa più difficile della mia carriera, era un’anguilla che mi scivolava tra le mani e sul set più volte mi sono pentito di aver firmato quel contratto».
È stato altrettanto difficile interpretare il Matteo Carati de «La meglio gioventù» che ha il triste epilogo del suicidio?
«Non sapevo cosa fosse il suicidio, cosa scatta in mente a chi arriva a questa tragica decisione. Purtroppo l’hanno fatto due persone che conoscevo bene: una si è buttata dall’ultimo piano di un hotel, l’altra si tagliò le vene. L’incontro con la morte mi ha reso più carico di umanità, di quell’immagine non ti liberi più».
A proposito di umanità: ha mai avuto una lite con un collega di cui si è poi rammaricato?
«A volte discuto animatamente, senza arrivare allo scontro».
Una critica offensiva del suo lavoro da cui si è sentito ferito?
«Qualcuna negativa è capitata, ma sono sempre migliorative. Diceva Alda Merini: ringrazio i miei nemici, perché sono i più attenti a ciò che scrivo. Amo ricordare il più bel complimento che abbia mai ricevuto. Una volta ero a Lecce per presentare proprio La meglio gioventù e, dopo la proiezione, venne una signora con la figlia, una ragazza non vedente e mia fan sfegatata. Mi disse che l’avevo emozionata perché, pur non potendo guardare i tratti del mio viso, le arrivava la mia forza interiore, il mio recitare col cuore».
Perché ha affermato che vorrebbe interpretare una drag queen?
«È un mondo lontanissimo dal mio, non lo conosco, vorrei conoscerlo intimamente e non con la faciloneria di quelli che, a volte, si cimentano in questo ruolo. Vorrei capire il motivo per cui certe persone nascono con un involucro, il loro corpo, in cui non si sentono a proprio agio. E mi affascinerebbe comprendere il passaggio da un sesso all’altro, le perplessità, le difficoltà nell’affrontare l’esistenza».
La sua compagna e madre dei suoi figli è la giornalista Nina Verdelli: le dà qualche consiglio mediatico?
«È molto più social di me e mi suggerisce le news da pubblicare o no su Instagram. Seguo sempre i suoi preziosi consigli».
Si intitola «Mordere la nebbia» il suo libro recentemente pubblicato. Quanto le è servito essere bergamasco per fare il suo mestiere?
«Bergamo mi è servita tanto per darmi lo stimolo a dimostrare ciò che sapevo fare. Mi sento bergamasco in quanto testardo: se mi prefiggo degli obiettivi, vado avanti, non mi arrendo e non mollo, magari sbattendo la testa. Mordere la nebbia è un motto per i giovani: capire cosa c’è dietro la nebbia senza averne paura».