il manifesto, 9 gennaio 2022
Lunga intervista ad Amitav Ghosh
Un senso di impellenza, il riflesso di memorie familiari traumatiche, nonché un fermo ottimismo della volontà, si indovinano nella costanza con cui Amitav Ghosh ha posto i temi dell’ambiente, dell’ecologia e della giustizia climatica al centro della sua ricerca artistica e intellettuale nel nuovo millennio. Originario di un Paese dove il vincolo inesorabile che lega gli esseri umani alla natura non ha bisogno di essere spiegato perché fa parte della dimensione quotidiana e immigrato nelle zone del mondo storicamente più dimentiche di questo stesso vincolo (Gran Bretagna e Stati Uniti), Ghosh è stato tra i primi scrittori ‘globali’ ad assumersi il compito di risvegliare le coscienze addormentate dal sonno, non tanto della ragione quanto dell’immaginazione. «I miei antenati sono stati rifugiati ambientali molto prima che se ne coniasse il termine», si legge nell’incipit di La grande cecità. Il cambiamento climatico e l’impensabile (Neri Pozza 2016), «Venivano da quello che oggi è il Bangladesh, e il loro villaggio si trovava sulla riva del fiume Padma, uno dei più possenti corsi d’acqua di quella regione. Un giorno, intorno al 1850, il grande fiume deviò all’improvviso dal suo corso, sommergendo il villaggio; solo alcuni abitanti riuscirono a fuggire dove il terreno era più alto. Fu questa catastrofe a disancorare i nostri avi, che cominciarono a spostarsi verso occidente e non si fermarono fino al 1856, quando si insediarono sulle sponde di un altro fiume, il Gange, in Bihar. Sentii questa storia per la prima volta durante un nostalgico viaggio familiare, mentre discendevamo il fiume Padma su un battello a vapore. Ero un bambino, allora, e scrutando nelle acque vorticose immaginavo una grande tempesta, con le palme da cocco che si flettevano all’indietro fino a sfiorare il terreno con le foglie; mi sembrava di vedere le donne e i bambini in fuga tra gli ululati del vento mentre le acque si gonfiavano alle loro spalle. Pensavo ai miei antenati accoccolati su un terrapieno, mentre le loro case venivano spazzate via». Per Ghosh l’emergenza ambientale non è dunque una scoperta dell’ultima ora: prendendo in prestito il titolo di uno dei suoi più intensi reportage, la crisi climatica è per lui l’ennesima «circostanza incendiaria» che lo ha coinvolto nella duplice veste di testimone e di narratore, riconducendolo nell’alveo del folclore bengalese premoderno presente nel Dna di famiglia. Una matrice linguistica e culturale poco esplorata sinora, in quanto antecedente alla colonizzazione britannica del subcontinente, che interpella Ghosh in modo viscerale, consentendogli – anzi imponendogli – una temporanea deviazione da quella modernità implacabilmente rettilinea, utilitaristica e desacralizzata, che lui stesso identifica con l’universo anglofono. Di questo simbolico ritorno alle origini, lontano anni luce da nostalgie atavistiche e significativamente avviato dopo che l’attentato di New York ha rinfocolato in Occidente logiche tribali mai sopite, sono frutto Il paese delle maree e L’isola dei fucili, due romanzi pubblicati a quindici anni di distanza (rispettivamente nel 2004 e nel 2019) e ambientati nell’arcipelago delle isole Sundarban, la più grande foresta di mangrovie del pianeta che si estende dal Bengala al Bangladesh, coprendo l’ampio delta del Gange e dei suoi tributari. Habitat naturale di preziose specie animali, l’arcipelago ha accolto sin dall’Ottocento ondate di rifugiati politici di varia provenienza, costretti a confrontarsi con un territorio difficile da coltivare, popolato da animali feroci e sistematicamente reclamato dal mare. Una regione ricca di biodiversità nella quale la coscienza collettiva del precario ma necessario equilibrio tra umano e non umano si è sedimentata in un folclore fortemente suggestivo e sincretico. Con Jungle nama. Il racconto della giungla (Neri Pozza, pp. 79, € 18,00), storia in versi della celebre leggenda di Bonbibi, Ghosh riaggancia il grande tema della giustizia ambientale attraverso la chiave espressiva per lui inedita della poesia popolare. Ispirato a due poemi epici ottocenteschi redatti nel metro bengali dwipodi-poyar – letteralmente «verso a due piedi» – composto di distici in rima pensati per essere salmodiati e letti ad alta voce, Jungle Nama riprende il mito delle origini delle Sundarbans già raccontato nel Paese delle maree e ne fa una storia universale sul conflitto tra l’avidità degli umani e il potere pedagogico e redistributivo della natura. Il racconto adatta i testi bengali in un inglese a sprazzi talmente infarcito di termini culturo-specifici – autentici o inventati che siano –, da indurre chi legge a chiedersi in quale universo antropologico sia stato inconsapevolmente catapultato. È l’ennesima, divertita provocazione di uno scrittore che ci ha abituato alle fatiche di un plurilinguismo nel quale l’inglese si mescola a tutti gli idiomi del mondo, a beneficio di una maggiore giustizia poetica. Il testo è illustrato dall’artista pakistano Salman Toor ed è reso ancora più eufonico in italiano dalla superba traduzione in settenari di Anna Nadotti e Norman Gobetti. L’incontro con Amitav Ghosh, che riportiamo in queste pagine, è avvenuto a Roma, ed è stata l’occasione per ripercorrere un po’ tutta la parabola dei suoi ultimi lavori.
Una tra le ragioni del successo delle sue opere sta nella loro capacità di interrogare le aporie della modernità sulle grandi questioni poste dalla scienza, dal colonialismo, dall’imperialismo, dal nazionalismo, dalla subalternità e, più recentemente, dall’ecologia, in uno stile che combina la descrizione ‘densa’ di derivazione antropologica, personaggi intensi e credibili, e un profondo interesse per la microstoria. È un progetto culturale che sembra scorrere parallelo al programma di disgiunzione del presente, di cui parla il filosofo Homi Bhabha, e di provincializzazione dell’Europa dello storico Dipesh Chakrabarty.
Homi e Dipesh sono miei grandi amici, ma non sono sicuro di essere una persona particolarmente incline alla teoria. Tuttavia, nel mio nuovo libro, The Nutmeg’s Curse (La maledizione della noce moscata), appena uscito nel Regno Unito, negli Stati Uniti e in India, il cui sottotitolo è Parables for a Planet in Crisis (Parabole per un pianeta in crisi), guardo a un episodio della storia moderna nei termini di una disgiunzione, proprio come la definirebbe Homi Bhabha. Parto dal racconto delle vicende legate alla noce moscata, una pianta che cresceva soltanto nel piccolissimo arcipelago delle isole Banda, nell’angolo più remoto dell’Indonesia, talmente costosa in Europa che un solo pugnetto sarebbe bastato a comprare una casa. Fu questo il motivo reale che portò Cristoforo Colombo e Vasco Da Gama a mettersi in viaggio verso quelle isole lontanissime. Quando gli olandesi vi approdarono imposero la monocoltura della noce moscata, esattamente come fecero gli inglesi con il papavero da oppio in India, più o meno nello stesso periodo. La popolazione locale resistette e nel 1721 venne massacrata da una flotta armata olandese. Fu uno dei primi genocidi dell’età moderna. Il saggio inizia con la microstoria di questa maledizione e utilizza la noce moscata come allegoria di una certa modernità.
La leggenda di Bonbibi, la divinità che protegge la foresta dalle razzie degli umani e assicura una giusta distribuzione delle risorse, è un mito di fondazione delle Sundarban che il «Paese delle maree» affronta in chiave religiosa e antropologica. Crede che il verso abbia aggiunto qualcosa alla leggenda già presentata nel romanzo, ad esempio un grado maggiore di universalità?
Mi fa piacere che abbia usato la parola ‘verso’ piuttosto che la parola ‘poesia’, perché non penso a Jungle Nama come a un testo poetico, quanto piuttosto a una narrazione in versi. Ogni leggenda indiana, dal Mahabharata e Ramayana in avanti, è sempre stata scritta in versi: forme metriche chiuse e solitamente distici, perché i distici suonano bene recitati ad alta voce e sono facilmente memorizzabili. È grazie al verso che queste leggende acquisiscono una dimensione performativa e diventano parte della memoria collettiva. Un’altra cosa che amo di queste leggende è il sincretismo culturale e religioso. Siamo abituati a ragionare in termini di separazioni, ma nella cultura popolare e nelle pratiche di vita le cose sono molto più mescolate. In Bengala, quando un induista si trova in difficoltà, la prima persona che consulta è il Pir, la guida spirituale islamica.
Il formato di «Jungle nama» e la presenza delle illustrazioni fanno pensare a un libro per bambini, che può essere letto e recitato in gruppo. Era nelle sue intenzioni?
La mia intenzione era creare l’equivalente contemporaneo di un ‘libro illuminato’, che rievocasse gli splendidi manoscritti miniati della tradizione indiana e iranica premoderna. Il che non esclude che si tratti di una storia adatta anche ai bambini. Malgrado Salman Toor sia un grande colorista, abbiamo deciso di lasciare i disegni in bianco e nero per mantenere un perfetto parallelismo tra parole e immagini, e perché la stampa a colori è costosa.
Tornando alla mitologia indiana, si direbbe che la storia di Bonbibi raccontata in «Jungle nama» sia una celebrazione dei valori della casa, della stanzialità e della conservazione del territorio, mentre la storia di Manasa Devi, raccontata nell’«Isola dei fucili», dia forma narrativa a un mito legato all’emigrazione, alla trasformazione e alla creazione di legami cosmopoliti. Sono entrambe storie allo stesso tempo locali e globali, che simboleggiano grandi questioni del nostro tempo…
In effetti le due leggende sono molto simili, essendo entrambe centrate su come trovare un equilibrio tra i bisogni degli umani e quelli degli altri esseri. Manasa Devi (la dea dei serpenti) in Gun Island rappresenta la voce di questi altri esseri che si confrontano con il mercante, e già in questa leggenda abbiamo una chiara concettualizzazione del conflitto tra la ricerca individuale del profitto e la necessità di giustizia sociale.
«L’isola dei fucili» sembra concepito come un esperimento su quell’immaginazione ambientalista il cui avvento invoca a gran voce nella «Grande cecità». I personaggi sono perfettamente delineati e situati, senza tuttavia diventare oggetto di indagine introspettiva e psicologica. Come descriverebbe le innovazioni stilistiche che ha dovuto adottare nello scrivere un romanzo non antropocentrico?
In realtà non ho pianificato L’isola dei fucili come un esperimento di scrittura non antropocentrica, ma nella fase successiva alla stesura della Grande cecità mi sono detto: dopo avere scritto tutto quel che ho scritto sul romanzo, cosa succederà quando dovrò lavorare al prossimo? Miracolosamente, è stata la storia ad afferrarmi, e in effetti il modo in cui l’ho sviluppata ha molto a che vedere con l’idea che la sfida per gli scrittori contemporanei sia come dare voce a ciò che non è umano. Il punto è pensare a modi diversi di inventare i personaggi e di raccontare la relazione tra gli individui e le collettività, come ho cercato di fare in Gun Island. Nella Grande cecità mi concentro piuttosto sul perché il romanzo sia così individualista, nel senso che parte da un individuo isolato che lo scrive e va nelle mani di un individuo che lo leggerà nel silenzio della mente, secondo quella pratica della letteratura iniziata con il romanzo borghese. Con Jungle Nama, invece, ho voluto collaborare e scrivere un’opera che non fosse silenziosa, così ho lavorato con Salman Toor e devo dire che è stata una rivelazione. La parte più difficile è stata eludere l’immagine stereotipata della tigre. Quella disegnata da Salman esprime un senso di minaccia e insieme di vibrante energia, così come il resto delle illustrazioni, nelle quali non si vede mai un volto poiché sono immagini sacre per gli abitanti delle Sundarban e l’espressività viene recuperata attraverso le mani e le angolature dei corpi.
«L’isola dei fucili» ha un intreccio molto più lineare rispetto a quello degli altri romanzi del nuovo millennio e l’equilibrio tra storia e discorso scientifico sembra sbilanciato a favore del secondo. Questo elemento didascalico, che si esprime per esempio nel brano su Ernesto De Martino, in quello sulle zone oceaniche morte, sulla piccola glaciazione e sulla storia di Venezia, è parte di una nuova estetica romanzesca?
Non parlerei di didascalismo quanto piuttosto di contestualizzazione. Credo che il romanzo contemporaneo non dovrebbe essere circoscritto entro limiti temporali troppo stretti: del resto, il cambiamento del pianeta è iniziato molto tempo fa e dunque anche il romanziere deve lavorare nell’ottica della longue durée. Questa è la ragione per la quale in Gun Island faccio la spola dal diciassettesimo secolo a oggi, perché quello è stato il secolo nel quale è iniziata la distruzione del pianeta. È stata un’altra delle sfide che mi sono posto nella scrittura del romanzo.
A proposito della trilogia sulla prima guerra dell’oppio, Robert Kaplan ha scritto che lei ha «raccontato la geopolitica dal punto di vista di individui impossibili da tipizzare, che lottano disperatamente per adattarsi alle correnti della storia». È una affermazione valida anche per personaggi come Bahram Modi e Zachary Reid, che nel «Fiume dell’oppio» sembrano incarnare quel genere di sudditi imperiali che Naipaul avrebbe definito «mimic men», ovvero individui cooptati dalla visione del mondo dei colonizzatori e destinati a una replicazione imperfetta dei loro modelli politici e culturali?
Bisogna intendersi sul significato di questa espressione: ad esempio, per Homi Bhabha, un mimic man non è chi è complice del potere coloniale ma chi resiste. Non penso a Bahram come a un mimic man, lo vedo piuttosto come una figura tragica. Al contrario, Zachary Reid non è un personaggio tragico ma uno che fa ciò che farebbe chiunque fosse desideroso di costruirsi una vita e diventare un borghese.
Lo statuto etico e epistemologico dei «mimic men» è una delle questioni più interessanti affrontate dalla trilogia, e sembrerebbe che la sua posizione sia nettamente diversa da quella espressa a suo tempo da Naipaul.
Sì, la mia posizione differisce totalmente da quella di Naipaul. The Mimic Men si distanzia dai romanzi pubblicati successivamente ed è scritto da un punto di vista profondamente emotivo.
In «Il cromosoma Calcutta» lei smentisce le pretese di verità scientifica rivendicate dalla medicina occidentale e illustra come la medicina coloniale e subalterna possa minare l’idea stessa di ‘scoperta’. Percepisce qualche analogia tra il conflitto tra la medicina ufficiale e la medicina alternativa, raccontato nel romanzo, e le rivendicazioni dei no-vax in merito alle presunte dittature sanitarie degli stati moderni?
Quando ho scritto Il cromosoma Calcutta nel 1995 ero ben lontano dall’immaginare quanto sta accadendo in questo momento, ma è vero che nel romanzo racconto di come la scienza occidentale abbia ricostruito genealogie false, nel senso che in molti casi si è trattato di conoscenze prodotte fuori dall’Europa e spesso dalle donne – ad esempio nel campo della botanica –, che sono state represse con grande violenza. Ciononostante, non c’è niente di accettabile nelle odierne posizioni no-vax, considerato che l’uso dei vaccini ha il potere di salvare molte vite.
Nel bellissimo saggio «The March of the Novel Through History» (La marcia del romanzo attraverso la storia) lei ricorda che la maggior parte dei romanzi contenuti nella grande biblioteca di suo nonno erano traduzioni inglesi di classici della letteratura europea. Qual è il suo rapporto con la lingua inglese oggi, dopo tre decenni di ininterrotta sperimentazione: è ancora visibile il «marchio della bestia», ovvero la traccia dell’eredità coloniale?
Ho cominciato a pensare e a scrivere all’interno di una tradizione anglofona, ma alla fine della stesura della Grande cecità sono giunto alla conclusione di voler conoscere tradizioni premoderne, e questo mi ha portato a cercare fuori dal perimetro dell’inglese, perché credo che la scrittura in inglese, così come in qualunque altra lingua europea (incluso l’italiano), sia profondamente permeata di modernità. Per mia fortuna conosco il bengali e così ho iniziato a leggere la letteratura premoderna scritta in quella lingua, che ha confermato la mia intuizione circa il fatto che si tratta di una tradizione ricca di testi molto sensibili ai temi dell’ambiente e delle voci non umane.
La ricezione della sua opera in Italia è divisa tra un pubblico di non specialisti, che consuma avidamente tutti i suoi romanzi (esistono persino gruppi di lettura dedicati), e una parte minoritaria ma ancora autorevole dell’accademia, che valuta le opere secondo canoni modernisti e postmodernisti prettamente formali e considera il recupero del realismo mimetico e degli intrecci complice dei processi di semplificazione e standardizzazione del campo letterario, generati da un’editoria di impianto neoliberista. Cosa direbbe in difesa del realismo mimetico oggi?
Il mio traduttore giapponese mi ha riferito che una analoga distinzione tra la letteratura ‘alta’ e la letteratura ‘leggibile’ esiste anche in Giappone. Credo sia legata a un’idea novecentesca di avanguardia artistica oramai superata. In effetti nella trilogia della Ibis e nel Palazzo degli specchi ho fatto molto uso del realismo mimetico. Credo però che il realismo tradizionalmente inteso non sia più in grado di cogliere e raccontare la realtà. Siamo entrati in una nuova era, che ha comportato la necessità di lasciarsi alle spalle una certa concezione della realtà, e credo dunque che chi scrive oggi debba contemplare la possibilità di includere stabilmente l’elemento più surreale, poiché è la realtà stessa a manifestarsi come surreale.