Corriere della Sera, 11 ottobre 2022
Su "Vita straordinaria di un uomo ordinario" di Paul Newman (Garzanti)
L’uomo più bello di Hollywood aveva la sindrome dell’impostore. Si giudicava ignorante, lo preoccupava conversare con l’amico Gore Vidal che, al contrario, considerava un’enciclopedia vivente, non si riconosceva nessun particolare talento. Non sapeva nemmeno di essere sexy. Finché non incontrò Joanne Woodward, era sposato con Jackie Witte, ma fu subito passione, un desiderio sconosciuto esplorato nei motel, nei parchi pubblici, nei bagni o nelle auto a noleggio. La sua sensualità era il prodotto dell’inventiva di lei. L’uomo più bello di Hollywood si sentiva un ornamento e un orfano. Da quando ragazzino tirava craniate alla parete che facevano sgretolare l’intonaco, ma almeno scaricavano la rabbia che non riusciva a esprimere, il padre che gli parlava appena, la madre che lo amava perché decorativo, splendeva a meraviglia con quegli occhi azzurri micidiali sulla moquette nera dove poltrivano spitz bianchi, scelti apposta per il contrasto cromatico.
L’assillo dei fan
L’uomo più bello di Hollywood detestava l’invadenza dei fan, la donna che in un ristorante a Westport prese una sedia e si accomodò fra lui e Joanne (la cacciò dicendole che era una maleducata), l’infermiera che dopo aver decretato la morte della madre gli chiese l’autografo mentre era ancora al suo capezzale, o il fotografo che a una delle prime gare da pilota professionista in Minnesota continuava a fargli foto e a distrarlo sulla griglia di partenza con l’unico obiettivo, gli avrebbe spiegato dopo, di riuscire a scattargli l’ultima istantanea da vivo. È lo stesso Paul Newman a raccontarlo in Vita straordinaria di un uomo ordinario, l’autobiografia postuma in libreria il 18 ottobre in contemporanea mondiale (in Italia per Garzanti), che il Corriere è riuscito a leggere in anteprima. Una confessione basata sulle conversazioni registrate tra il 1986 e il 1991 con Stewart Stern, l’amico sceneggiatore di Gioventù bruciata.
L’emarginazione
È la versione di Paul, nato nel 1925 in una casa a tre piani a Brighton Road, un sobborgo di Cleveland, da una famiglia benestante, padre ebreo e madre cristiano scientista originaria della Slovacchia. Colpisce quanto si sentisse emarginato, durante l’adolescenza, un po’ per la statura (dovrà aspettare la fine della guerra per trovarsi, all’improvviso, alto 177 centimetri), un po’ per la religione paterna, che tuttavia non volle mai rinnegare. Quando perfino il cattivissimo produttore Sam Spiegel, noto con lo pseudonimo di S.P. Eagle, nel 1953 gli chiese di cambiarsi il nome, lui ribatté proponendo S.P. Ewman. Fine della storia. Affermarsi come attore fu il frutto della disciplina con cui si applicò a ogni compito. Se l’aspetto fisico era la sua rendita fissa, lui la moltiplicò studiando ogni parte con umiltà, pur arrivando a teorizzare la fortuna di Newman: la parte di Rocky Graziano, in Lassù qualcuno mi ama, gli era stata data solo perché James Dean era morto.
La fatica di essere padre
Ma è come padre che si dà i giudizi più severi: non si riconosceva capace. E del primogenito Scott, nato dal matrimonio con Jackie Witte (sposata nella totale inconsapevolezza di cosa fosse la vita coniugale, salvo una sequenza di eventi ovvi come i fiori che crescono dopo la semina), avrà sempre il rimorso di avergli trasmesso l’impulso all’autodistruzione. Quando morì di overdose nel 1978, lui era al Kenyon College di cui era stato studente, per dirigere una pièce al campus: continuò le prove come se nulla fosse, e andò in camera mortuaria soltanto tre giorni dopo. Sapeva quanto fosse difficile essere figlio di Paul Newman (ebbe altre due femmine da Jackie e tre da Joanne), non c’erano mai state gite allo zoo, con il rischio di essere importunati. Ma il problema vero era la fatica di esprimere come si sentiva, per sempre orfano, mai davvero figlio, non aveva avuto nemmeno un mentore artistico.
La filantropia
Si spese moltissimo per gli altri. La notorietà gli aveva dato un potere e scelse di sfruttarlo. Nel 1963, in Alabama con Marlon Brando, volle provare su di sé l’effetto del pungolo elettrico per bestiame che i poliziotti bianchi usavano contro i neri: fece un balzo di tre metri. Come filantropo e attivista donò quasi un miliardo di dollari. Per i bambini malati, a metà degli anni 80 fondò i campi estivi per farli divertire (in Italia c’è il Dynamo Camp di Limestre, Pistoia). Ringraziando August Busch, il proprietario della Budweiser che gli aveva dato un contributo di 866 mila dollari, scrisse un biglietto spiritoso in cui ammetteva di aver consumato 200 mila lattine della sua birra a partire dai 18 anni. L’alcol era il suo modo di anestetizzarsi. Non diventava mai molesto. Semplicemente spegneva l’interruttore. E l’inadeguatezza spariva.