il Fatto Quotidiano, 12 ottobre 2022
Un’Epinay per il Pd
Nella discussione, spesso scomposta, su come riorganizzare il campo progressista torna il richiamo al congresso rifondativo del Partito socialista francese del 1971 a Epinay. Un congresso di rilancio dopo le sconfitte storiche subite anche dalla destra di De Gaulle.
Questa suggestione è giusta, ma cosa è stata davvero Epinay?
Innanzitutto un congresso vero, senza esclusioni di colpi. Il “congresso dell’unità” fu un congresso combattuto, al termine del quale, il partito trovò in François Mitterrand l’interprete del suo rilancio. Al centro, la svolta a sinistra, un nuovo modello di sviluppo fondato sulla critica al capitalismo, il dialogo con i sindacati, l’alleanza con comunisti e i radicali di sinistra, forte organizzazione territoriale, una prospettiva di governo.
Le mozioni presentate furono 17, la battaglia fu durissima, soprattutto sulla svolta a sinistra e sulla prospettiva anticapitalista. Mitterand la spuntò riunificando le diverse mozioni, avendo la sua ottenuto solo il 16%. Ma unificando vinse con il 51,26% contro un altro grande leader, Guy Mollet (48,73%).
Dal podio usò queste parole: “Chi non accetta la rottura, chi non è disposto a rompere l’ordine stabilito e con la società capitalistica, non può essere membro del Partito socialista”.
Fino a quel momento Mitterand era stata una personalità forte, divisiva: partigiano, sindaco di Chateau-Chinon dal 1959 al 1981, senatore, deputato, ministro. Pagò le sue scelte rimanendo dal 1959 al 1964 senza partito visto che il Partito socialista autonomo gli rifiutò persino l’iscrizione. Passò per vittorie, sconfitte, isolamento personale e politico.
Nel 1974, mentre ricostruiva il campo socialista, visse ancora una sconfitta, inattesa: quella per la presidenza della Repubblica contro Valéry Giscard d’Estaing dove si fermò al 49,2%.
Per questo è importante il richiamo a Epinay, a patto di rimanere fedeli all’originale: critica al modello di sviluppo, alleanza strategica a sinistra (5 Stelle e Sinistra ecologista), rapporto con i sindacati, attenzione alle comunità locali, prospettiva di governo. Capacità di riunificare, leadership e identità forti, senza l’assillo dell’interesse generale e generalista. Si può e si deve avere una ambizione egemonica sulla società partendo da un punto di vista e la tutela di interessi di parte. La parte che sta peggio, che subisce impoverimento e assenza di prospettive individuali e collettive. La superbia di voler rappresentare tutti sfocia nella maledizione di non far battere il cuore a nessuno. Urge, per fare Epinay, coraggio e voglia di interrogare nel profondo i mutamenti della società italiana. E costruire l’alternativa prima tra i blocchi sociali e poi al governo.
La rendita di posizione, durata dal 2011, è terminata, si chiude un ciclo in cui il Pd ha sostanzialmente quasi sempre governato con qualsiasi tipo di alleanza e una certezza inossidabile, la trazione tecnocratica come potere assoluto neutro e indiscutibile. Con la vittoria della Meloni torna la ruvidità della politica e delle scelte di campo. Fare un congresso rifondativo alla Epinay coinvolgendo le forze sociali interessate ad una svolta a sinistra. E passando di qui trovare il proprio Mitterand. Oppure non sciogliere i nodi di fondo, continuare nel patto di sindacato tra notabilato, sperando in una supplenza virtuosa del nuovo segretario/a. O nella scalata rottamatrice di nuovo conio, poco cambia.
Ma se non sarà Epinay i rischi di venire ulteriormente erosi e insidiati dal polo liberale da un lato e da chi, in ogni caso, aprirà il cantiere riaggregativo a sinistra appare evidente. E anche in questo caso sarà la Francia ad insegnare, non quella del 1971 però, ma quella più recente che ha visto svanire l’opzione socialista colpita a tenaglia da Macron da un lato e Melanchon dall’altro.