il Giornale, 12 ottobre 2022
Alla Recherche della comicità
Fra i comici di professione, i più comici sono i comici involontari. Quelli che fanno ridere (o meglio, fanno sorridere) proprio perché non fanno ridere. Ridiamo (sorridiamo) del loro fallimento, come se le loro battute che non fanno ridere fossero una sequela di bucce di banana su cui scivolano e cadono. Chiunque abbia visto-ascoltato una qualsiasi puntata di un qualsiasi cabaret televisivo, sa quanto siano spassosi e quanto si meritino il sarcasmo del nostro riso o sorriso.
Ma ancor più divertenti dei comici involontari di professione, sono i comici non di professione e inconsapevoli. Quelli che recitano una parte non loro, che vogliono far credere di essere ciò che non sono. Insomma, quelli che fingono. Li troviamo ovunque: negli uffici, nelle redazioni dei giornali, sui treni, al supermercato, ai festival culturali, nei ristoranti. Tuttavia, per apprezzare la comicità inconsapevole di queste persone, dobbiamo già conoscerle: soltanto in questo caso il loro travestimento, il loro atteggiarsi, il loro camuffamento ci divertirà. E non di rado ridendo o sorridendo di loro, rideremo o sorrideremo di noi stessi...
Il luogo letterario dove questo meccanismo per cui la conoscenza, messa di fronte a una mistificazione, genera umorismo, non è un capolavoro di umorismo. È un capolavoro e basta: Alla ricerca del tempo perduto di Proust. Intendiamoci, Marcel Proust, nella vita di tutti i giorni (diciamo fino ai dopocena, perché le notti lui le dedicava quasi esclusivamente alla scrittura) era anche un sottile umorista nel senso classico e comune del termine. Lo conferma il suo immenso epistolario, dove i motteggi, le prese in giro, le commedie degli equivoci in due battute fanno ridere o sorridere come le Tragedie in due battute del grande Achille Campanile. Ma lì, nella Recherche, è tutta un’altra storia.
Nel saggio Dalla parte di Proust (Carocci, pagg. 207, euro 17), Stefano Brugnolo, docente di Teoria della Letteratura all’Università di Pisa, usa un termine molto efficace per spiegare l’intimo conflitto fra il come si è e il come si vuole apparire che avviene nelle menti e nei cuori di molti personaggi proustiani: «psicomachia». Proprio come nell’omonima opera dell’autore tardo-latino Prudenzio, si tratta di una lotta tra vizi e virtù. Le anime purganti di Proust si sdoppiano e a volte si triplicano in un gioco di nascondimento e rivelazione. Dove? Come? Perché? Nei salotti aristocratici e alto-borghesi della Parigi di inizio Novecento, progenitori, osserva giustamente Brugnolo, del «salotto planetario» che è oggi la Rete, fra siti e social network; con copioni calibrati sui gusti del pubblico, in questo caso, dell’uditorio; per ottenere un gradimento sotto forma di stima e autorevolezza (oggi, di like e di retweettamenti). E tutto ciò suscita, appunto, un effetto comico. Anche perché, come ben sanno i lettori della Recherche, lì dentro abitano due Marcel, il Marcel protagonista e il Marcel narratore, e il secondo, nella sua onniscenza di autore, tutto vede e tutto ascolta, incluse le ipocrisie, gli infingimenti, gli opportunismi dell’altro Marcel.
Nella Recherche, in fondo, non si fa altro che parlare. È tutto un lunghissimo talk show, e questa che Brugnolo chiama «dimensione conversazionale», governata dal Proust «sintassiere» (come lo definì Mallarmé), se a volte rischia l’effetto Woody Allen, cioè la logorrea, non trabocca mai dal vaso dell’eleganza, perché al momento giusto spunta il Proust moralista alla maniera di La Rochefoucauld. Oltre, naturalmente, al Proust psicologo, il quale distilla, dalla coralità salottiera, il carattere, le turbe e le idiosincrasie del singolo. E che in Dalla parte di Swann scrive ad esempio: «Gli stupidi si immaginano che le grosse dimensioni dei fenomeni sociali sono un’occasione eccellente per penetrare ulteriormente nell’anima umana; essi dovrebbero invece comprendere che è discendendo in profondità in una individualità che essi avrebbero l’opportunità di comprendere quei fenomeni».
Perché è soltanto il singolo a confrontarsi con i due poli dell’esistenza: l’Abitudine e l’Ignoto. Cioè la condizione rassicurante e quella inquietante. E tuttavia, senza gli altri non si è nessuno, poiché, dice Proust: «noi non conosciamo mai che le passioni degli altri, e quel che arriviamo a sapere delle nostre è solo dagli altri che abbiamo potuto scoprirlo».
Proust possedeva un poco di quello «snobismo evangelico» che egli attribuisce in dosi abbondanti alla principessa di Parma. E lo usava per scopi nobili, porgendo a tutti i suoi lettori uno specchio in cui riconoscersi. E spesso ridere (sorridere) di sé stessi.