1 settembre 2022
Tags : Antonia Klugmann
Biografia di Antonia Klugmann
Antonia Klugmann, nata a Trieste il 2 settembre 1979 (43 anni). Cuoca. Imprenditrice. Personaggio televisivo. Cuoca, fondatrice e titolare del ristorante «L’Argine a Vencò» di Dolegna del Collio (Gorizia) (una stella Michelin). «Nessuno può dire di conoscermi davvero finché non mangia qualcosa cucinato da me» • «Secondo il mio albero genealogico sono per un quarto ebrea ucraina, per un quarto emiliana, per un quarto triestina e per un quarto pugliese. La mia famiglia mescolava Est, Ovest, Nord e Sud e raccoglieva orientamenti religiosi, politici e culturali diversi. La varietà è stata ed è ancora la sua forza. Per me, in questo, non c’è mai stato niente di strano». «“Trieste ha messo insieme più influenze che derivano dalla miscellanea geografica della mia famiglia. Il lato di mio nonno Antonio, ad esempio, che era di Molfetta. Andavo a comprare il pesce con lui la mattina. Era fissato anche con le verdure fresche. E, soprattutto, era un cuoco straordinario. Ancora ricordo il sapore delle sue triglie alla livornese. O delle alici crude con olio, limone e pane con pomodoro grattato. Cose semplicissime, che ogni uomo o donna del Sud sa fare. Ma che nascondono un sapere antico che si rinnova ogni giorno”. Dalla sua parte mitteleuropea dipende, invece, “il radicamento nel territorio, e dunque la ricerca quasi ossessiva di frutta, carne e latticini che siano la massima espressione di questi luoghi”. C’è poi la parte ebraica. “Mio nonno, Giuseppe Klugmann, si era trasferito da Leopoli negli anni Venti. Era il classico immigrato dell’Est Europa. A Trieste faceva il commerciante. Non era fino in fondo ebraico, ma nella sua cucina le origini venivano fuori eccome. Sua moglie invece era ferrarese”» (Angela Frenda). «Mia nonna ferrarese ha portato nella cucina di casa la pasta fresca, il ragù, i grandi primi all’italiana e i fritti misti. La parte triestina e il nonno ebreo polacco hanno portato gli abbinamenti di carne e frutta, il gulasch, le cose tipiche dell’Est Europa, e poi c’è la parte del Sud – potente dentro di me –, perché mia mamma ha portato la tradizione di mio nonno di Molfetta. Quindi è chiaro che io rappresento questo, e parlare di territorio nella mia regione è interessantissimo anche per questo» (ad Arnaldo Greco). «Sei figlia di due medici e hai studiato Giurisprudenza: volevi costruirti un percorso lavorativo tradizionale? “Sono nata in una condizione di vantaggio; non posso lamentarmi di niente. Mi è stato chiaro fin da quando ero piccola che il lavoro fosse molto importante, e che la definizione del sé avesse a che fare con quello che si fa per mestiere. Come donna non ho mai percepito una seconda chance, una seconda scelta possibile al di là del lavoro. Mai pensato a un piano B che fosse fare la casalinga, o non buttarmi al 100% in un campo nel quale fossi in competizione con gli altri”» (Marina Pierri). «Mi piaceva studiare Giurisprudenza, ma dopo tre anni ho lasciato l’università: non mi vedevo a fare quel mestiere per tutta la vita. Mi sarebbe piaciuto qualcosa di più creativo. Amo l’arte e il teatro. A quei tempi vivevo da sola, e l’unica cosa che facevo la sera, quando rientravo dopo le lezioni, era preparami da mangiare. Ma non sapevo cucinare. Ho sempre voluto imparare a farlo, e già che c’ero ho frequentato un corso serio: Cucina generale e pasticceria della scuola Altopalato». «“Ai miei, gliel’ho detto al telefono. Avevo poco più di vent’anni, studiavo Giurisprudenza alla Statale di Milano. Chiamai casa, a Trieste. Dissi: voglio fare la cuoca. Sono medici entrambi, erano sconcertati: all’epoca fare la cuoca era considerata una professione umile, mica c’era MasterChef (ride). Mia mamma se la cavò così: Antonia, male che vada, un lavoro in mensa, lo trovi sempre”. […] Come ha cominciato? “Da ‘bubez’, una parola che mescola triestino e sloveno e significa lavapiatti, factotum. Lavoravo in una buffetteria di Trieste: facevo dolci. La gente diceva: però, buone ’ste torte. Ho avuto fortuna. In quel periodo il titolare stava aprendo un ristorante con uno chef. Mi fa: vuoi provare come stagista? Solo dopo ho saputo che lui e lo chef avevano scommesso: questa dura quattro giorni. Bè, invece sono rimasta lì quattro anni, ho imparato il mestiere. Ma ho subito capito che il capo volevo essere io”» (Furio Zara). «In quegli anni hai incontrato il tuo compagno, Romano De Feo. […] “Sono contenta che sia accaduto in quel periodo, sì. Quando cominci da cuoca, la gente non fa che dirti che sei una schifezza. Che devi migliorati, che non vai bene: nessuno ti dice ‘brava’. È una pressione che ormai capisco e replico persino, perché a mia volta la metto sui ragazzi. Cioè… i complimenti, in cucina, vanno conquistati. Così, in quella fase molto difficile, iniziale – quella in cui non lo sai nemmeno, se riuscirai a diventare cuoco –, ho incontrato Romano, che essendo già un po’ del mestiere – era già un enotecario – mi ha incoraggiata. Cucinavo per lui dopo il servizio. Mi diceva che avevo la mano, la sensibilità necessaria, che dovevo crederci”» (Pierri). La svolta è legata a un grave incidente automobilistico. «Era il 2005 e avevo 26 anni: ero già passata nella cucina di grandi chef come Bruno Barbieri e Riccardo De Prà». «Un tipo ubriaco con un furgone mi viene addosso a 190 all’ora. Sono da sola in autostrada, dalle parti di Latisana. La macchina comincia a girare come una trottola. Ho tre pensieri. Penso: è finita. Penso: fa’ che non resti paralizzata. Penso: se morte deve essere, fa’ che sia con un colpo secco. Una botta tremenda, ma ne esco viva. Un anno di terapia. E niente cucina. Solo nuoto, massaggi, riabilitazione. È in quel momento che comincio a “sentire” i sapori e scopro l’orto». «Ho guardato fuori dalla finestra, in piena campagna, e coltivare mi è sembrato il perfetto palliativo. Non potevo cucinare, ma potevo far crescere qualcosa. Così è iniziato il mio rapporto con l’orto, guardando come maturava l’ingrediente». «Cosa ha trovato nell’orto? “Me stessa. Ho conosciuto la terra, mi sono fatta amica la fatica. Impari a rispettare la stagionalità, accetti l’idea di sostenibilità. È un’esperienza unica, didattica: tutti nella loro vita dovrebbero prima o poi occuparsi di un orto. Gli ‘occhi della cuoca’, li ho affinati là: significa tradurre qualsiasi stimolo in un’idea valida per la cucina”» (Zara). «Scopre i fiori, le erbe spontanee, le bacche. Trova la chiave per dare personalità alla sua cucina: nel 2006, insieme al compagno Romano De Feo, apre l’Antico Foledor Conte Lovaria a Pavia di Udine» (Maurizio Bertera). «Nel 2011, quando l’avete chiuso, è cominciata – nelle tue parole – una delle parti più difficili della tua vita. […] “Abbiamo deciso di acquistare il terreno a Vencò, dove poi è sorto L’Argine, perché volevamo investire su noi stessi. C’è da dire che la costruzione di un edificio in Italia è una roba di una complessità enorme. La parte burocratica è stata assurda, abbiamo avuto bisogno di decine di permessi. Un casino. Per mantenere noi e la costruzione sono andata via per tre anni a lavorare. Il caso ha voluto che trovassi prima un lavoro a Venezia, in un ristorante, e dopo un po’ di pausa che fossi chiamata in un altro ristorante ancora, a Burano. […] Il primo posto era vicino a San Marco, poi ha preso anche la stella… Il Ridotto. Il Venissa era un’altra cosa in termini di coperti, di brigata, di numeri, di attrezzatura. Per la prima volta nella mia vita ho gestito un gruppo numeroso: una lezione essenziale da imparare, specie perché non l’avevo mai fatto in una struttura mia. Una scuola di vita”. […] Poi è nato L’Argine. […] “Quando sono arrivata non vedevo fisicamente L’Argine da un anno: c’era ancora il cantiere, ma abbiamo aperto comunque il ristorante. Romano è un appassionato di architettura, il locale l’ha disegnato lui. Non era mai contento. Avrebbe cesellato e cesellato. A un certo punto, mi sono imposta e ho detto: “Noi apriamo appena abbiamo i permessi”. Li abbiamo avuti in due giorni. E abbiamo aperto, sì”» (Pierri). «Curioso, però: lei è triestina, L’Argine è in pieno Collio. “La scelta ha avuto a che fare proprio con il mio essere triestina: provengo da una città di confine, aperta, in cui influenze e culture diverse si incontrano e si incrociano. […] La scelta di stare in campagna invece è tutta mia: nella mia famiglia non ci sono storie contadine, sono stata io da adulta a desiderarla, e oggi cerco di sfruttare al massimo le potenzialità di questa scelta. Poi, mi sono convinta con il tempo che ha molto senso gestire un locale vicino al vino. […] Se avessi un ristorante in città, dovrei impazzire per trovare la materia prima giusta: a Vencò passo senza problemi dai fiori di sambuco all’edera terrestre…”» (Bertera). «Il bisogno di bellezza […] è quello che mi ha portata a Vencò. Prima di comprare l’edificio del ristorante, ho girato per un anno in campagna cercando qualcosa che non avesse nulla di brutto attorno, per essere circondata a 360° dalla bellezza». «Apre l’Argine a fine 2014 e diventa un riferimento per chi ama la cucina vegetariana (e vegana) di gran classe: […] fuori dalle rotte normali, un approdo all’interno di un bosco. Ma non è un buen retiro, semmai il trampolino per diventare la più brava: stella Michelin in pochi mesi dall’apertura, miglior cuoca per la Guida dell’Espresso 2017» (Bertera). La grande popolarità giunse nel 2017, quando subentrò a Carlo Cracco quale quarto giudice della settima edizione di MasterChef Italia (Sky). «Dall’apertura de L’Argine […] ho imparato a usare la comunicazione, a farne un mezzo fondamentale. Il mio ristorante è in un luogo preciso in cui non potrebbe vivere del quartiere, o di quello che c’è intorno. Ho iniziato a fare show cooking, a parlare ai congressi… Sembrerà una banalità, ma questo mi ha aiutata a comprendere l’importanza del guardare fuori dalle proprie mura. MasterChef fa esattamente parte di questo percorso: aprirsi per il proprio lavoro». «“Rivedermi la prima volta nelle registrazioni è stato un trauma. Era come se mi stessi guardando attraverso lo specchio. La tv appiattisce tutto. Non mi sono piaciuta”. E poi? “Poi sì, ma un po’ alla volta. Perché MasterChef mi ha aperto la mente. Per due mesi mi sono presa cura di me. Non mi ero mai autorizzata a occuparmi della mia parte frivola”. La parte frivola? “I tacchi, per esempio. A MasterChef ho indossato scarpe col tacco per la prima volta nella mia vita. Dolorosissimo, ma bellissimo. Ho fatto sport, andavo a correre: e questo mi ha fatto bene. Prima di entrare portavo una 48, ora la 42. Sono dimagrita dieci chili: meglio così, no? Ora sono contenta del mio lato estetico. E so che a entrare in una profumeria non succede niente di brutto”» (Zara). «Le piaceva il ruolo di “cattiva”, o quantomeno della severa del gruppo? “Da un lato per gli autori c’era il bisogno di colmare il ruolo lasciato da Cracco e plasmarlo su una donna, dall’altro io amo le cose fatte alla perfezione. Ma non era certo una situazione ad hoc per creare un personaggio. Semmai devo dire che sono rimasta basita, offesa a volte da quanto usciva inizialmente sul web, con attacchi pesantissimi al mio fisico e al mio essere l’unico giudice donna. Questa è la cosa che ricordo con maggiore dispiacere”» (Bertera). Conclusa dopo una sola edizione la sua partecipazione al programma, la Klugmann tornò a occuparsi a tempo pieno del suo ristorante • «Io ho scelto Romano perché abbiamo un progetto di vita comune. Ci siamo trovati a 22 anni, e gli ho detto subito che avrei sempre messo il lavoro al primo posto. Lui ha detto sì. Sa, non sono un personaggio facile…». «Io, le lavatrici, non le faccio: le fa il mio compagno. Ci dividiamo i compiti» (a Chiara Maffioletti). «Lui è il mio uomo di sala: è un maître e non un cuoco, per fortuna. Non ci possono essere due chef sotto lo stesso tetto». «“Siamo uno l’opposto dell’altra. Io aggressiva, lui più pacato. Ha un pregio: non mi annoia mai. E quando mi arrabbio gli urlo: ti uccidooo! […] Mi vedo realizzata solo nel lavoro, e allora lavoro sempre, quattordici-quindici ore al giorno. Romano ha capito che il suo sostegno è fondamentale”. […] Qual è la cosa che desidera di più oggi? “La maternità. Mi sono sempre pensata con un figlio. È arrivato il momento”» (Zara) • «Antonia nasconde dietro il sorriso soave, quasi zen, un carattere di ferro, quasi asburgico. È una perfezionista nata» (Bertera) • «Che cosa fa quando non cucina? “Vede, lavoro tanto e dormo 4-5 ore a notte, per cui ho poco tempo libero. Mi piace la vela, ma non ho tempo di praticarla. E dire che da piccola odiavo le regate, i raduni, il freddo cattivo. Poi mi sono ricreduta. Comunque appena posso vado al cinema. Il film della mia vita è Thelma & Louise, ma adoro tutto Ridley Scott: I duellanti, Black Rain, ovviamente Alien”. […] E come si rilassa? “Sono una gattara”» (Zara) • «Antonia, ti ritieni un’introversa? “Sì, sì. Sono molto solitaria. Lo sono sempre stata. […] Non sono una donna da festa, non cerco la folla, non mi piacciono i gruppi, amo le relazioni personali e di scambio. Sono pesantissima, insomma”. […] “L’analisi mi ha aiutata tantissimo. È stata la chiave di volta. Il lavoro è la maniera attraverso cui sento di poter controllare il mio destino. […] Se ho un obiettivo solitamente sono molto determinata a raggiungerlo, e questo è sia un bene che un male. Difficilmente riesco a infilarmi in qualcosa che non abbia una prospettiva. […] L’analisi mi ha aiutata a comprendere che questo comunque era un mio meccanismo e non aveva senso reprimerlo”. […] Ti definisci femminista? “Madonna, sì. Una femminista sincera. Virginia Woolf in Una stanza tutta per sé ha già detto tutto. La donna deve trovare il proprio spazio nella società e ricavarsi i mezzi per esprimere la propria creatività. La propria identità”» (Pierri) • «Rapporto con le parolacce? “Ne dico tantissime. In cucina è il posto in cui sono più me stessa, senza filtri, e le parolacce mi vengono proprio spontanee”» (Maffioletti) • «Io adoro guidare. Faccio tra gli 80 e i 100 mila chilometri l’anno. In auto mi rilasso, e spesso il mio tempo libero è quello che trascorro nei trasferimenti. Tante idee per i miei piatti mi sono venute mentre ero alla guida» • «Tutto lo staff dell’Argine viene coinvolto – come succedeva al Noma di René Redzepi – nella ricerca della materia prima. “Abbiamo un ettaro di terra tutto nostro, ma i ragazzi vanno anche nel bosco, sul greto del fiume, nei prati selvatici: imparano a riconoscere le erbe e i fiori, a coltivarle, a raccoglierle e a reciderle: sono gesti che cambiano il sapore del prodotto e quindi del piatto – spiega la Klugmann –: in pratica, è un corso di botanica applicato alla cucina. Tutti lo fanno per due ore al giorno, per sei mesi di fila, così capiscono quanto è dura la vita del contadino. È un impegno che rende umili e disciplinati i miei collaboratori”» (Bertera) • «La vera sfida, per la chef, è riuscire a comunicare la cucina al di là dei soliti cliché: “Il frico, la pasta ripiena, i cjarsons, che possono essere ripieni di frutta secca, di ricotta affumicata, di erbe amare… Da una profonda analisi della natura derivano gusti inaspettati. Io, per esempio, ho trovato ricette fatte persino con la resina dei tronchi. In una frazione di Resia, zona meravigliosa circondata dai torrenti, ho scoperto una varietà di aglio unica, custodita come un segreto prezioso da un gruppo di famiglie”» (Frenda). «Qual è stato il primo piatto che l’ha resa orgogliosa? “La polentina verde. È una polenta bianca mantecata con burro al silene, che la rende appunto verde. Per farla servono lo ‘sclopit’, che è un’erba poverissima delle nostre parti, panna acida, violette e semi di papavero. È un piatto molto evocativo. I friulani che vengono da me – e sono orgogliosa che metà dei miei clienti sia del Friuli – dicono che gli ricorda casa”. […] Lei si è mai vergognata di un suo piatto? “Ci sono piatti che non riescono come vorresti. Se capita, io la notte ho gli incubi”» (Zara). «“Ho un libro di culto, in varie edizioni, che risale agli anni Venti ed è il ricettario Cucina triestina di Maria Stelvio, giornalista poliglotta, che metteva insieme le ricette di casa, quelle dei ristoranti e i piatti serviti sulle grandi navi”. La cucina de L’Argine a Vencò è “istintiva”, spiega Antonia. “Non rielaboro la tradizione: a volte parto da un’intuizione di abbinamento, altre da una innovazione tecnica”. Ma, come per la Stelvio, il cardine è il “massimo rispetto dell’ingrediente”, […] sempre con lo stesso approccio: “Poco spreco, grande attenzione a territorio e stagionalità come alle risorse, sia energetiche che umane”. Avendo presente che “il lusso non è quello che costa tanto ma ciò che è unico”. Un esempio? “A ogni cambio di menu chiedo al macellaio di fiducia cosa fatica a vendere: quei pezzi difficili saranno le mie materie prime. In carta abbiamo un fegato che è come un foie gras, grazie a fermentazione e frollatura. Ci vogliono almeno 15 giorni per poterlo cucinare confit e abbiamo impiegato 18 chili di fegato per trovare la procedura corretta. In fondo devo ringraziare il lockdown: ci ha dato il tempo e la concentrazione per spostare l’intera squadra di cucina sulla ricerca”» (Fernanda Roggero) • «Il nostro settore è faticoso, anche fisicamente. Bisogna arrivare a certi livelli, dove la competizione è alta, per coglierne la fatica mentale e la richiesta di sacrificio che impone. Ma non è più maschilista di altri. È il cliente a riempire i ristoranti. Non credo che per lui faccia differenza se cucina un uomo o una donna. Conta se un piatto è buono o cattivo» • «Solo quando cucino mi sento davvero me stessa». «Vorrei consolidare ciò che ho costruito. Mi affascinano le grandi famiglie di ristoratori, quelle che si tramandano le tradizioni da generazioni. E il mio progetto è continuare a fare sempre meglio il mio lavoro».