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 2022  settembre 14 Mercoledì calendario

Biografia di Salah Abdeslam

Salah Abdeslam, nato a Bruxelles il 15 settembre 1989 (33 anni). Terrorista. Jihadista dell’Isis. Unico sopravvissuto del commando responsabile degli attacchi coordinati di Parigi del 13 novembre 2015, le aggressioni terroristiche che hanno causato più vittime nella storia francese in tempo di pace (130 morti e 350 feriti tra Bataclan, stadio Parco dei Principi e vari locali). Fuggito subito dopo la strage, è stato catturato il 18 marzo 2016 a Molenbeek, in Belgio e poi estradato in Francia. Il 23 aprile 2018 è stato condannato da un tribunale belga a 20 anni di carcere per il tentato omicidio dei poliziotti con cui ebbe uno scontro a fuoco il giorno della cattura. Il 29 giugno 2022, dopo un processo durato dieci mesi, la Corte d’Assise speciale di Parigi lo ha condannato all’ergastolo senza possibilità di condizionale per gli attentati del 13 novembre 2015. Dopo la condanna ha deciso di non ricorrere in appello. «Tutto quello che voi dite su di noi, i jihadisti, è come se leggeste l’ultima pagina di un libro. Invece bisognerebbe leggere il libro per intero» (frase pronunciata durante il processo).
Vita «Originario di Molenbeek, quartiere di Bruxelles. Papà conducente di tram, mamma casalinga, di origini marocchine, Abdeslam dice che da bambino era “calmo e gentile. In famiglia c’era una buona atmosfera”. Due fratelli, Brahim, morto suicida negli attacchi di Parigi, e Mohammed, impiegato comunale di Molenbeek, e due sorelle. Dopo la maturità tecnica, andò a lavorare come meccanico nella società del padre, a riparare i convogli. Ma dopo un anno e mezzo si licenziò, inanellando una serie di lavoretti. Finché una sera fu arrestato per tentativo di rapina in un garage (“mi ci ritrovai in mezzo, senza volerlo”), assieme al suo amico da sempre, Abdelhamid Abaaoud, altro giovane perso di Moleenbek. Ieri (il 2 novembre 2021, in aula al processo a Parigi, ndr) non lo ha ricordato, ma anni dopo, guardando i video postati da Abaaoud dalla Siria, mentre al volante di un Suv trascinava nella polvere i cadaveri dei giustiziati dello Stato islamico, Abdeslam si convincerà che anche per lui era arrivata l’ora della jihad. Prima era stato condannato più volte, anche per guida senza patente o sotto l’effetto di stupefacenti. “Amo la velocità”, ha commentato. Abaaoud, mente operativa degli attentati del 13 novembre, lo utilizzò nei mesi precedenti per scorrazzare in tutta Europa su auto di grosse cilindrata: andava a cercare tra l’Austria e l’Ungheria gli altri terroristi del commando, arrivati dalla Siria come migranti qualunque. La sua radicalizzazione risale al 2014, giusto un anno prima del Bataclan. In precedenza (ma, secondo varie testimonianze, anche pochi giorni prima gli attentati…) Abdeslam beveva, andava in discoteca (pure gay, per attirare omosessuali adulti e poi spennarli), si faceva le canne nel bar del fratello (lui martire davvero il 13 novembre). Ieri ha voluto ridimensionare quel Salah lì (“Spinelli? Una volta ogni tanto”). Per poi riassumersi così: “Sono nato in Belgio, sono cresciuto lì, impregnato dei valori occidentali”. Che vuol dire “vivere come un libertino, senza preoccuparsi di Dio. Fare, bere e mangiare quello che si vuole”» (Leonardo Martinelli) • «Pochi giorni prima dell’attacco aveva affittato la Polo nera utilizzata dai terroristi che hanno lanciato l’assalto al Bataclan. È stato lui ad accompagnare a bordo di una Seat in un caffè di Boulevard Voltaire il fratello Ibrahim che poi si è fatto esplodere» (Carlo Bonini) • «Abdeslam ha partecipato all’organizzazione degli attacchi a partire dall’estate 2015, facendo diversi viaggi tra Belgio, Ungheria, Germania per recuperare in macchina alcuni dei terroristi mandati dalla Siria. Sempre lui si è occupato del noleggio degli appartamenti e delle macchine serviti agli attentatori nella capitale francese. Dopo il 13 novembre, durante la fuga di 126 giorni ha goduto di molte complicità. E gli investigatori belgi s’interrogano anche sul suo ruolo negli attentati di Bruxelles del 22 marzo 2016, avvenuti solo quattro giorni dopo la sua cattura» (Anais Ginori) • «18 marzo 2016, municipalità di Molenbeek, Bruxelles. Teste di cuoio circondano l’area attorno al numero 79 di rue des Quatre-Vents. A pochi passi da quello che rivelerà essere l’ultimo “covo” del terrorista, un negozio di frutta e una farmacia. Un megafono avverte che è in corso una operazione di polizia. Al numero 79, otto teste di cuoio sono già in posizione di attacco, quando all’improvviso dal portone esce un uomo vestito con una felpa bianca. Scappa, ma dalle immagini non sembra fuggire con scatto da centometrista, un poliziotto spara, lo colpisce a una gamba. Poco dopo, si vede Salah trascinato zoppicante verso una macchina dei servizi di sicurezza. Strano blitz. Salah era in trappola, l’edificio circondato, perché tentare la fuga con il rischio di finire ammazzato? E strane appaiono anche le modalità della sparatoria. Pochi i colpi esplosi all’indirizzo del fuggitivo, quando Salah viene portato nell’auto, zoppica ma non sembra sanguinare. Misteri, come quelli che avvolgono la vita del giovane jihadista, e soprattutto la sua lunga e ancora inspiegabile latitanza. Qualcuno aveva azzardato l’ipotesi che la sua cattura sia stata in qualche modo concordata con l’intelligence belga, una sorta di resa, ad avvalorare questa ipotesi le prime parole del suo avvocato, Sven Mary, fatte filtrare a poche ore dall’arresto sui media. “Sono stanco – avrebbe detto Salah –, finalmente è finita”. Altri avanzano scenari più inquietanti, anche perché negli attentati di Parigi avrebbe dovuto farsi saltare allo stadio e non lo aveva fatto, e sue eventuali rivelazioni alle forze di sicurezza non sarebbero state tali da mettere in crisi il network terrorista che opera tra Francia e Belgio. Misteri sulla rete che ha coperto la sua lunga latitanza, iniziata il 14 novembre, quando Salah sfugge a un primo blitz a Molenbeek. Il 21 novembre altri blitz a Bruxelles, ma del terrorista neppure l’ombra. Si diffonde la voce che sia fuggito in Siria, ma poche settimane dopo, il 10 dicembre, sue tracce vengono trovate nel corso di un’irruzione in un appartamento nella municipalità di Schaerbeek. Per giorni, Salah gira in Europa indisturbato e protetto. I servizi segreti francesi segnalano la sua presenza a Forest, ma lui riesce a sfuggire a un altro blitz nel corso del quale muore un jihadista di nazionalità algerina. Una fuga continua fino al 18 marzo, data della sua cattura» (Enrico Fierro) • Il 28 aprile 2016 è stato estradato in Francia. «II “piccolo imbecille di Molenbeek”, come lo ha definito il suo avvocato, ha rimesso piede sul territorio francese alle 9 e 05 del mattino di. Salah Abdeslam aveva lasciato la Francia nella notte tra il 13 e il 14 novembre, dopo aver partecipato agli attentati terroristici di Parigi e Saint Denis […] La linea di difesa di Abdeslam è farsi passare per un pesce piccolo. Il suo avvocato belga, Sven Mary, in un’intervista a Libération ha detto che il terrorista “ha l’intelligenza di un portacenere vuoto, è di una vacuità abissale. L’esempio perfetto dalla generazione Grand Theft Auto che crede di vivere in un videogioco”. Di fronte alle polemiche e alle accuse di avere umiliato il suo cliente, l’avvocato Mary è arrivato ad ammettere apertamente che quelle frasi erano state concordate con Abdeslam, per fare passare il messaggio che “il piccolo imbecille di Molenbeek” non poteva avere avuto una parte importante negli attacchi. Dopo il trasferimento dal Belgio a Parigi con un elicottero del Gign (il reparto di élite della gendarmeria francese), il terrorista è stato rinchiuso in isolamento a Fleury-Mérogis, a una trentina di chilometri da Parigi, nel carcere più grande d’Europa. Il suo nuovo legale francese è il celebre principe del foro di Lille, Frank Berton, che ha parlato in tv di «un uomo molto abbattuto, pronto a collaborare, che non può portare il peso di atti che non ha commesso» (Stefano Montefiori) • «La sveglia è alle sette del mattino. Di solito gli agenti fanno l’appello per controllare che il detenuto sia “vivo e si muova”. Per Salah Abdeslam è superfluo. Nella cella di nove metri quadrati è sorvegliato giorno e notte da due telecamere e tre agenti con lo sguardo fisso sugli schermi al plasma, in una sala attigua. Ogni gesto è scrutato. Abdeslam è in isolamento al secondo piano di uno dei bracci di Fleury-Mérogis, la struttura costruita negli anni Sessanta come un gigantesco tridente, cinta da muri alti venti metri, fili spinati elettrici sistemati anche sopra ai cortili per evitare che elicotteri possano posarsi. Nella cella c’è una tv chiusa dentro a una bolla di plexiglass per evitare che possa tentare di spaccarlo e ferirsi. Il carcere offre l’abbonamento a canali satellitari su cui Salah può vedere tutte le notizie, anche quelle che lo riguardano. Ma è più interessato al calcio, segue diversi campionati europei» (Anais Ginori) • «Durante il processo, il più lungo mai celebrato in Francia dal Dopoguerra, Abdeslam ha attraversato diverse fasi: passando da fedele “combattente dell’Isis” a uomo pentito che ha chiesto scusa alle vittime e ai suoi famigliari. Nelle udienze si è difeso riferendo ai giudici che quel giorno avrebbe dovuto colpire un locale nel 18esimo arrondissement di Parigi ma che una volta entrato e aver visto i clienti non ha avuto il coraggio di far saltare la cintura esplosiva che aveva addosso. Una versione che non ha convinto i giudici, così come i procuratori antiterrorismo di Parigi, che hanno ipotizzato invece un malfunzionamento nell’ordigno. «È vero, ho commesso errori, ma non sono un assassino, non sono un killer, se mi condannate per omicidio, commettereste un’ingiustizia», ha detto Abdeslam davanti ai giudici. Dopo sei anni di carcere i magistrati hanno inflitto contro Abdeslam una condanna all’ergastolo che esclude ogni possibilità di liberazione, la quarta sentenza di questo tipo nella storia della Francia, per questo definita anche come “pena di morte sociale”» (Domani) • «Salah Abdeslam, la vedette del processo, che nei primi giorni si è prodotto in diverse uscite per così dire intempestive, ha l’aria di uno che sta sostenendo un colloquio di lavoro e cerca di minimizzare i problemi con la polizia che ha avuto da ragazzo: educato, sorridente quanto basta, e tutti gli sono riconoscenti di accettare di giocare al gioco quando in fondo non ha nulla da guadagnarci né da perderci. […] In prigione, Salah Abdeslam giocava a scacchi, ma ha lasciato perdere quando ha scoperto che era vietato dal Corano. Sui banchi della stampa ci siamo tutti precipitati sui nostri telefonini per verificare se era vero: non è vero. Il profeta vieta soltanto i giochi d’azzardo, e gli scacchi non rientrano certo in questa categoria. È il gran muftì dell’Arabia Saudita che li ha dichiarati haram, perché fanno perdere tempo e denaro e provocano odio fra i giocatori. […] Tutte le cose che dice hanno scarso peso, ma qualcosa che assomiglia a una linea di difesa ce l’ha. Si regge su due punti. Primo: non ho ucciso nessuno, non ho ferito nessuno, non c’è sangue sulle mie mani. È vero, e vale anche per tutti gli altri imputati, visto che quelli che hanno ucciso sono tutti morti. Secondo: «Capisco che la giustizia voglia dare degli esempi. Ma allora se un individuo è nella metro con una valigia con 50 chili di esplosivo e all’ultimo momento decide di fare marcia indietro, che cosa si dirà? Si dirà che comunque non glielo perdoneremo, che sarà rinchiuso e umiliato come me, e allora che cosa farà?». Per dirla in altre parole: se non c’è nessun premio per il pentimento in extremis, tutti si faranno saltare in aria. L’argomento è scioccante, ma non è assurdo. Se una persona che non ha ucciso si becca la stessa condanna, cioè il massimo, di una che ha ucciso, la vaga sensazione che ci sia qualcosa che non va c’è. È sufficiente perché Salah Abdeslam abbia qualche possibilità di prendere meno, qualcosina in meno, dell’ergastolo a cui tutti lo destinano? È questa minuscola possibilità che spiega il suo passaggio dall’immagine di ombroso combattente dello Stato islamico che ha rivendicato all’inizio del processo a quella di diavoletto immaturo che vediamo oggi nella gabbia degli imputati? Tra l’orgoglio e la prudenza, tanto vale scegliere l’orgoglio, se sei sicuro di non avere nulla da perdere. Ma se non sei sicuro? Se c’è una piccola via d’uscita? È dall’inizio del processo che tutti si pongono questa domanda: se Salah Abdeslam non ha azionato la sua cintura come previsto è stato perché 1) non ha funzionato o 2) perché ha avuto paura? Nella prima versione i jihadisti lo possono perdonare, nella seconda tutti gli altri lo possono compatire. Ma ecco che a un certo punto dell’interrogatorio, senza preavviso, senza neanche che gli venga chiesto di ripetere, perché è tardi, lui lascia cadere lì una terza versione: vedendo ai tavolini dei ristoranti tutte quelle persone della sua età, che assomigliavano a lui, che come lui si erano messi la camicia migliore e un po’ di profumo dietro le orecchie, ha provato per loro una profonda empatia e ha rinunciato al suo progetto. In questa terza versione, non è se stesso, ma gli altri che avrebbe risparmiato. È impossibile da verificare, ma come strategia di difesa si può tentare.
(Emmanuel Carrère) • La Corte d’Assise speciale di Parigi ha giudicato che il suo giubbotto esplosivo non ha funzionato correttamente, respingendo l’ipotesi difensiva secondo la quale Abdeslam aveva abbandonato il giubbotto perché non più intenzionato a portare a termine il suo attacco.