16 settembre 2022
Tags : Reinhold Messner
Biografia di Reinhold Messner
Reinhold Messner, nato a Bressanone (Bolzano) il 17 settembre 1944 (78 anni). Alpinista • «Un mito vivente» • «Un gigante» • «Un uomo dalla personalità granitica, un montanaro dalla scorza dura, apparentemente indistruttibile» (Guido Andruetto, GQ 2/2015) • Primo al mondo a scalare un 8000 senza ossigeno. Primo a scalare tutti i quattordici 8000 della Terra. Detto per questo il Re degli Ottomila • Carriera straordinaria. Ha raggiunto i massimi livelli in ogni campo – dalle rocce dolomitiche alle grandi montagne dell’Himalaya, in solitario e in velocità, in libera e in invernale. Fautore di un ritorno all’alpinismo «by fair means», contro i chiodi, le corde fisse, le bombole di ossigeno, le tecnologie moderne. Ha scalato così tante montagne che non se le ricorda nemmeno tutte («Ho perso il conto»). Fece il suo primo 3000 a cinque anni, accompagnando il padre Sepp. A venti, già apriva nuove vie sulle sue Dolomiti. Dal 1965 al 1973 ha compiuto oltre 500 salite sulle Alpi – su roccia, ghiaccio e misto – fra cui moltissime prime. Nel 1970, nonostante la tragedia che colpì suo fratello Günther (che morì travolto da una valanga, aveva 24 anni), realizzò la traversata del massiccio di Nanga Parbat (8126 m); nel 1972 raggiunse la vetta di Manaslu (8125 m) lungo l’inesplorata parete sud; nel 1975 il Gasherbrum I (8068 m); nel 1978 la vetta dell’Everest (8846 m), primo uomo a arrivarci senza l’ausilio dell’ossigeno; nel 1979 il K2 (8617 m); nel 1981 il Shisha Pangma (8018 m); nel 1982 il Kanchenjunga (8585 m), il Gasherbrum II (8035 m) e il Broad Peak (8047 m); nel 1983 il Cho Oyu (8189 m); nel 1985 l’Annapurna (8078 m) e il Dhaulagiri (8222 m); nel 1986 il Makalu (8470 m) e infine il Lhotse (8516 m). Non contento, ha cominciato a pensare a imprese «orizzontali», come la traversata dell’Antartide (1990, a piedi, senza mezzi meccanici o animali) e quella del deserto di Gobi (2004, idem) • Autore di una settantina di libri: provocatoriamente ne intitolò uno Il settimo grado (1974), quando la scala ufficiale per classificare la difficoltà delle scalate arriva al massimo al sesto. Altri titoli: Arena della solitudine (1977), Il limite della vita (1980), Il mio grande anno himalayano (1984), Sopravvissuto (1987), La libertà di andare dove voglio (2013), etc. • Già parlamentare europeo per i Verdi (dal 1999 al 2004) • Famossissimo per lo spot dell’acqua minerale Levissima («Altissima, Purissima, Levissima»), con cui entrò nelle case di tutti gli italiani • Si è sempre definito «un disadattato, in fuga da un mondo addomesticato». Oggi, alla soglia degli ottant’anni, dice di essere diventato «un alpinista della domenica». E, guardandosi indietro, aggiunge: «Ho la fortuna di aver fatto la vita che ho sempre voluto. Sono un privilegiato, lo riconosco».
Titoli di testa «Reinhold Messner ha soltanto 33 anni e a vederlo non dà l’impressione della forza che poi vien fuori nelle ascensioni: non molto alto, magrolino, barbetta e capelli rossicci non fanno di lui un “personaggio” al primo acchito; ma anche un profano della montagna, quando lo sente narrare le privazioni a cui si sottopone in vista delle scalate, capisce che quel ragazzo è fatto di una pasta diversa» (Gigi Mattana, Sta 21/5/1978).
Vita Cresciuto a San Pietro di Funes, nella valle che da Bressanone sale verso Chiusa. Tipica infanzia sudtirolese, le vacche da mungere, il maso da portare avanti, il pollaio da guardare. In famiglia sono nove figli: Helmut, Reinhold, Günther, Erich, Walfraud (unica donna), Siegfried, Hubert, Hans Jorg, Werner. Il padre, Joseph, maestro nella piccola scuola locale, ricorda bene l’italianizzazione forzata dell’Alto Adige e ha voluto dare ai figli nomi intraducibili • Nel 1949, a cinque anni, la prima ascensione: il Sass Rigais (3.025 metri), nel gruppo delle Odle, accompagnando il papà. A tredici, inizia a scalare per conto proprio. A sedici, già guida cordate sul quinto grado. Nel frattempo, prende un diploma di geometra, poi frequenta tre corsi di ingegneria a Padova. Ma è chiaro a tutti – a lui per primo – che la sua strada è un’altra • Ventenne, comincia ad aprire nuove vie sulle Dolomiti. La prima invernale sulla via Solleder, sulla parete nord della Furchetta. La via Vinatzer, sulla sud della Marmolada. La via Soldà, sul Sassolungo. La nord delle Droites in meno di 8 ore, quando gli altri ci impiegavano 5 giorni. A un certo punto ne ha fatte così tante che le Alpi non gli bastano più • Estate 1970. Il dottor Karl Maria Herrlingkofer, il medico bavarese che nel 1953 aveva guidato la spedizione che violò il Nanga Parbat (8125 m), vuole tornare sull’Himalaya per replicare l’impresa passando per una nuova via. Reinhold, 25 anni, e il fratello Günther, 24, vengono scelti come uomini di punta della spedizione: dovranno sistemare sulla parete corde, chiodi e tende. Cronistoria della spedizione. Il 17 maggio, i due fratelli allestiscono il campo base, a circa 4700 metri di quota. Il 21 maggio, Reinhold attrezza con chiodi la parte di ghiaccio fra il secondo e il terzo campo. Poi le cose iniziano a mettersi male. Un messaggio drammatico arriva a Bolzano da Gilgit (Pakistan): «Da sette giorni mio fratello Günther e io siamo chiusi nel terzo campo a metà della più alta parete del mondo. Una bufera che non finisce più non ci permette di tornare al campo base. In parete siamo soltanto noi due, tutti gli altri campi sotto di noi sono vuoti. Il 3 giugno noi due assieme a Peter Scholz e a Felix Kuen abbiamo tentato di piantare il campo a circa 6600 metri di quota, ma un vento terribile ci ha costretti a scendere al campo terzo. Kuen e Scholz sono scesi subito al campo base mentre noi volevamo aspettare un miglioramento delle condizioni atmosferiche, miglioramento che non si è verificato. Da sette giorni, vento, tempesta, neve; ogni giorno la nostra tenda viene sommersa dalla neve e dalle valanghe. È terribile. Abbiamo ancora da mangiare per due giorni. Poi non si sa». Il 5 giugno, nella tormenta, Reinhold e Günther allesticono il quinto campo. Poi aspettano il razzo. È stabilito, infatti, che dai campi più a valle, i due fratelli avrebbero ricevuto indicazioni circa le previsioni metereologiche: razzo rosso, assalto solitario alla vetta; razzo blu, bel tempo, attacco alla vetta portato da tutti gli uomini della spedizione compresi i tedeschi Kuem e Scholz; razzo blu e rosso, attacco rinviato. Scrive un cronista dell’epoca: «Le notizie a questo proposito sono confuse e contraddittorie e Messner non vuole precisare cosa accadde veramente. Pare comunque che, dal campo base, sia stato sparato un razzo rosso, quello del cattivo tempo e dell’attacco solitario alla vetta, in contraddizione con le previsioni atmosferiche» (CdS, 1970). Il 7 giugno, Reinhold e Günther lasciano la tenda per affrontare gli ultimi mille metri di parete, niente corda, pochissimi viveri, niente maschera per l’ossigeno. Alle 17 sono in vetta, è la terza salita al Nanga Parbat in assoluto. Bivaccano a 8000 metri, non hanno più acqua né cibo. Günther è molto provato, a causa del freddo e della stanchezza soffre di allucinazioni. «Mio fratello mi disse che era troppo debole per ridiscendere da dove eravamo venuti, dalla parete sud, e mi chiese di provare da quella ovest, il versante Diamir». Una strada mai tentata prima, tecnicamente più facile, ma dove non ci si può fermare. Passano la notte tra l’8 e il 9 luglio a 6600 metri. Günther sta malissimo. Da lontano, vedono i compagni Kuem e Scholz. Sono distanti solo 90 metri, ma separati da un precipizio. Gridano. Ma c’è una tempesta di neve e non si sente niente. Ricorda Reinhold: «Non avrebbero potuto aiutarci, erano senza corda e comunque io e mio fratello eravamo convinti di farcela». Tempo un’ora, i due fratelli raggiungono un terreno abbastanza facile sulla morena alla base del monte. È lì che avviene la tragedia. Reinhold procede alla sinistra del ghiacciaio, Günther sta a destra. Poi un boato. Günther scompare sotto una valanga. Per una giornata intera, Reinhold lo cerca disperatamente sotto la neve. Poi, quando si rende conto che, se resta lì, rischia di morire anche lui, si rassegna e scende verso valle. «Qual è il suo ultimo ricordo di suo fratello? “Sono immagini drammatiche, quelle dell’ultimo giorno, quando abbiamo cominciato a scendere da soli perché non si poteva aspettare. Ci guardavamo con la speranza di farcela, ma con la consapevolezza che saremmo morti entrambi. È un miracolo se sono rimasto vivo, quando mi hanno trovato a valle non mangiavo da sei giorni e pesavo 56 chili. Sono uscito dalla morte”» (Alessandra Ziniti, Rep 10/6/2022). Reinhold viene riportato in Europa in fretta e furia. L’8 luglio è ricoverato in una clinica di Innsbruck. Due dita del piede sinistro sono congelate, gliele devono amputare. Lui si sottopone all’operazione senza fare storie, ma a una condizione: prima dell’intervento, lo devono far tornare a San Pietro di Funes. Nella chiesa del paese, hanno organizzato una messa in memoria di Günther Messner: lui vuole essere presente, accanto al padre, alla madre e agli altri sette fratelli • Nei successivi otto anni, Reinhold torna per tre volte sul Nanga Parbat per cercare il cadavere del fratello. La tragedia lo ha segnato. Ma a mollare l’alta quota, non ci pensa per niente. «Nel 1970 avevo 25 anni: dopo la salita al Nanga Parbat dalla parete Rupal – che avevo scelto perché si trattava di arrampicare e non di pestare la neve – avevo perso parzialmente le dita dei piedi e non potevo più arrampicare come prima. Ho fatto comunque altre prime ascensioni nelle Dolomiti, ma i dolori mi tormentavano. È stato lì che ho deciso: rimango nell’attività in montagna, ma divento un alpinista, uno specialista d’alta quota» (Andruetto) • Nel 1978 si lancia in un’impresa mai tentata prima. Vuole scalare l’Everest secondo «lo stile alpino», senza cioè bombole d’ossigeno, senza portatori d’alta quota, senza corde fisse, senza chiodi a espansione, senza radio. Spiega: «Non ho il diritto di rovinare la montagna. Se lascio un chiodo in parete o una bombola d’ossigeno, la rovino. Se spiego la tecnica di come si fa a vincerla, tolgo ad altri la possibilità di vivere la loro avventura. Io non costringo nessuno a fare come me, ma penso che scalare un 8000 con ossigeno sia come scalare un 6000 senza: è un fatto schizofrenico» (Ivana Borghini, Corriere d’Informazione 1/7/1978). I medici sono contrarissimi: secondo i loro calcoli nessun essere umano può sopravvivere senza bombole a 8800 metri, la pressione parziale dell’ossigeno nel sangue arterioso è troppo bassa perché possa arrivare nelle cellule della corteccia cerebrale e il cervello possa quindi essere irrorato. Messner, di rimando: «I calcoli sono giusti soltanto per chi non è acclimatato; la fisiologia sa poco dell’uomo in alta quota. Sull’Everest sono saliti almeno cento sherpa con 15 chili sulle spalle oltre gli 8500 metri, quando le bombole d’ossigeno non esistevano. Se si può andare a 8600 metri, si può anche arrivare ad 8800». La spedizione dura due mesi e mezzo, dal 10 marzo al 20 maggio. «Ho raggiunto la cima con il mio compagno Peter Habeler l’8 maggio a mezzogiorno. Siamo partiti da quota 7896 alle quattro della mattina e abbiamo raggiunto la cima in otto ore: a quella quota o si è veloci o si muore. Peter si è fermato 10 minuti in vetta, io mezz’ora. Ho registrato su un nastro quello che ho detto lassù: nulla di intellettuale, nessuna idea e nessun ragionamento, ma soltanto pure emozioni». «Qual è stato il rischio maggiore? “La mancanza di ossigeno. Si sa che da 7500 metri in su ogni minuto muoiono migliaia di cellule nel cervello e stando su a lungo si può diventare matti. Per questo abbiamo scelto la tecnica di restare il meno possibile e ‘forse’ siamo rimasti normali. E poi il rischio della valanga: ci si arrampica su di una seraccata di 600 metri di dislivello, che si muove di un metro al giorno. Un nostro scerpa è stato travolto ed è morto”» (Borghini). «In alta quota siamo responsabili di tutto quello facciamo. La legge della natura, che è divina, sta anche dentro di noi. E a certe altitudini si è in un mondo senza leggi né giudici. Se si fa un errore è sentenza di morte». Il fisiologo Rodolfo Margaria è stupefatto: «Non pensavo che si potessero superare gli 8000 senza ossigeno. Ma i fatti sono fatti e sui fatti non si discute, qualsiasi siano i calcoli che si fanno al tavolino». Messner: «Tutta la scienza sarà da rivedere, perché oggi si sa ancora troppo poco sulle modificazioni del sangue in alta quota. Hanno analizzato il mio sangue a 8000 metri, su un aereo, e mi hanno detto che è il sangue era il sangue di un morto cosi come da morti erano i nostri volti». L’impresa lo rende famossissimo, ma lui non si scompone: «Scalare l’Everest senza ossigeno è un’idea che avevo da dieci anni. Sono andato per vivere un mio sogno e una mia avventura. Due cose l’hanno reso possibile: il desiderio di realizzare questo sogno e l’esperienza che ho acquisito. Il fatto poi, che questa impresa abbia fatto scalpore nel mondo, per me è una cosa secondaria».
Dolori Per anni fu accusato da altri alpinisti (in testa il barone von Kienlin, lasciato dalla moglie proprio per Messner) di avere abbandonato il fratello Günther. «Perché tanti veleni attorno a questa spedizione che le ha dato il successo per lei più doloroso? “Dovrebbe chiederlo a chi, per vendere qualche copia di un libro o solo per far parlare di sé, ha ordito questa infame calunnia. Mi hanno dato del fratricida, mi hanno accusato della cosa più orribile: aver abbandonato mio fratello per arrivare da solo in cima”» (Ziniti).
Dolori/2 L’alpinismo gli ha preso un altro fratello, Siegfried, morto nell’85, colpito da un fulmine, sulle torri del Vajolet.
Amori Prima moglie: la giornalista tedesca Uschi Demeter (già von Kienlin). Nozze nel 1972, divorzio nel 1977.
Amori/2 Nel 1981 ha avuto una figlia, Leila, dalla fotografa canadese Nena Holguin.
Amori/3 Il 1° agosto 2009, a 64 anni e dopo 25 di convivenza, sposò Sabine Eva Stehle. Cerimonia civile nel comune di Castelbello-Ciardes. Con lei, Messner ha avuto tre figli: Magdalena (n. 1988), Simon (n. 1991), e Anna (n. 2002). «Sabine ad ogni mia partenza si presentava con il testamento da cambiare, sai ci sono altri figli di cui tenere conto, giusto così». Divorziano nel 2019.
Amori/3 Il 28 maggio 2021 sposò Diane Schumacher, origini lussemburghesi, 36 anni più giovane, divorziata, con un figlio. Si erano visti per la prima volta, davanti al Castello di Brunico, il 18 agosto 2018, alla festa dei popoli della montagna organizzata dal Museo Ripa. Lui l’aveva vista camminare su un ponte, indossava un abito color pastello dal tessuto pesante, simile ai capi indossati in Nepal o in Sudamerica. Al termine della giornata, quando lei stava per andar via, si erano incontrati di nuovo. Lei gli aveva chiesto una foto. Lui, d’impulso, le chiese il numero. L’aveva chiamata già l’indomani. «Ero rimasto colpito da questa donna bellissima, desideravo conoscerla meglio. Ero un po’ perso. Mia moglie mi aveva lasciato otto mesi prima e non stavo cercando una nuova compagna, sopravvivevo benissimo anche senza saper cucinare: a me bastano un po’ di speck e pane secco, poi spesso mangio al ristorante, quando sono via per la mia attività di conferenziere». Diane: «In realtà già sul ponte mi stava facendo tante domande, credevo volesse offrirmi un lavoro. Poi quando mi ha chiamata ho capito che aveva un altro interesse...». Lei: «Lui non ha pazienza. Se abbiamo un appuntamento e siamo in orario, scalpita lo stesso. Per contro, se litighiamo non me lo rinfaccia: si dimentica tutto subito». Lui: «Diane è una donna bellissima ed è cento volte più pratica di me, può sistemare qualsiasi cosa. Il difetto: è molto emotiva». Lei: «Aggiungo una cosa. Nonostante lui abbia poca pazienza, quando mi accompagna a fare shopping, cosa che odia, non mi mette mai fretta: se devo provare gli abiti, sta lì a guardarmi a ogni cambio» (Elvira Serra, CdS 20/7/2022).
Politica «Nel 1999, quattro anni dopo la morte di Alex Langer, sono stato eletto europarlamentare assieme a Daniel Cohn-Bendit. Vedevamo già avanzare intolleranza e xenofobia, disprezzo per la natura e ossessione per la crescita, neo-nazionalismo e localismi, materia prima dei fascismi europei di oggi. Ho lottato scrivendo libri, aperto musei e girato film: dicevano che non potendo restare famoso grazie alle gambe, usavo la lingua» (Giampaolo Visetti, Rep 21/3/2018).
Religione «Mosè scende dal Sinai, Buddha si ritira nell’Himalaya e Maometto medita in una caverna del Monte Hira… la montagna ha uno stretto legame con la religione. Ma lei è un uomo religioso? “È vero, le religioni vengono dall’alto. E ogni lavoro fatto con entusiasmo è una preghiera. Però, l’aldilà non posso raggiungerlo, perché non ho né la testa né gli occhi né mani per sentirlo”» (Pietro Del Re, Rep 20/10/2011).
Colmi «Dopo essere sfuggito alla collisione dei ghiacci al Polo Nord e alle tempeste del monte Belucha, in Siberia, finii in trappola a casa mia. Di notte, sotto la pioggia. Ero rimasto senza chiavi e i bambini avevano freddo. Mi arrampicai sul muro, scivolai: fratture al tallone destro e rottura del malleolo».
Curiosità Alto 1,80 • Parla italiano, tedesco, inglese • Si considera più un artista che uno sportivo • La sua stretta di mano può frantumare le ossa • Quando la Merkel andava in vacanza in Sudtirolo, si faceva portare in giro da lui • Ha importato Alto Adige una mandria di yak • Gli è stato dedicato un asteroide, il 6077 Messner • Ha criticato il concerto di Jovanotti a sulla cima di Pan de Corones, 2275 metri («Non posso vietarlo, ma lo farei se potessi») • Gelosissimo del Jack Russel della moglie • Nel 2015 Il Fronte Verde invitò i parlamentari a votarlo come presidente della Repubblica • Due mesi prima di attraversare l’Antartide a piedi, si svegliava la notte dicendosi: se si rompe il fornello è finita, perché non avrai più da bere. «Potevo sempre portarmene due di fornelli. Ma avrebbero potuto rompersi entrambi. Ho allora spaccato il fornello in cento pezzi e l’ho riaggiustato. Solo in quel momento ho trovato la serenità per poter partire. Mettendo comunque nello zaino due fornelli» • Detesta il fatto che oggi sull’Everest si possa trovare la pizza Yeti, che sull’Himalaya ci può andare chiunque paghi il biglietto, che ci si scatti selfie in cima agli 8000 («Questo non ha niente da fare con il mio alpinismo. Io avevo delle idee e le ho realizzate. Oggi si compra un passaggio») • «L’ultima volta che sono andato in Nepal, salendo da Lukla a Namche Bazar per la prima volta la gente non congiungeva più i palmi dicendo “Namasté”. In mano hanno tutti il cellulare e osservano il mondo secondo i colossi del web. Se hai le mani occupate non puoi unirle per salutare: l’addio a quel gesto è il congedo da una curiosità millenaria, sorgente della spiritualità. Anche il loro pensiero è appiattito sull’istante, come il nostro, subito cancellato dal successivo. Questo succede in Mongolia e in Cile, in Congo e in Groenlandia: lo sterminio sistematico delle diversità è la tragedia più sottovalutata del nostro tempo» • «Si sente mai stanco? “Qualche volta, quando sto fermo”. Si sente mai triste? “No. Io vedo che l’uomo non ci sarà più fra migliaia di anni. L’uomo è un caso del mondo e non sopravviverà. Per questo potrei anche essere triste. Ma non lo sono perché in fondo mi piace vedere come l’uomo si sta suicidando”. Si sente mai infelice? “Talvolta. Quelli dell’infelicità sono momenti chiave della vita, gli unici momenti in cui si impara qualcosa”. Ha paura della vecchiaia? “Forse oggi la molla che mi spinge è proprio la paura di invecchiare. Se sto fermo senza fare qualcosa di difficile io mi rendo conto che invecchio. Durante la traversata dell’Antartide mi sono sentito giovanissimo» (Sabelli Fioretti). «In Antartide mi è venuto chiaro il fatto della morte. Ho capito che noi non moriremo. Noi cadremo nello spazio infinito e nel silenzio infinito. È strano che noi abbiamo paura dello spazio e del silenzio infinito, perché è lo stato d’animo più bello che si possa provare» (Sabelli Fioretti).
Titoli di coda Il corpo del fratello Günther venne ritrovato con un solo scarpone nel 2005. Il secondo scarpone, nel 2022. «“Ma ora non conta più niente. Io ho perso un fratello 52 anni fa: Günther aveva solo 24 anni ed è rimasto vivo e giovane nella mia testa e nel mio cuore, in quello della mia famiglia e di tutta l’Italia che ci vuole bene e che ci è stata accanto in questi 50 anni di sofferenza”. Prova ancora tanta rabbia? “No, ormai non più. Io e la mia famiglia abbiamo ritrovato pace e serenità”» (Ziniti).