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 2022  settembre 22 Giovedì calendario

Biografia di Renato Curcio

Renato Curcio, nato a Monterotondo (Roma) il 23 settembre 1941 (81 anni). Fondatore ed ex capo delle Brigate Rosse. In carcere dal 1974 al 1993 e poi in semilibertà fino al 1998.
Titoli di testa «La nostra violenza veniva dalla storia del Novecento. Aveva alle spalle gli anni Sessanta ma anche le vicende della Resistenza e della guerra. Da ragazzini andavamo a sentire le storie che raccontavano i partigiani. Noi siamo cresciuti così. Alla fine degli anni Ottanta io e i miei compagni in carcere abbiamo deciso di sciogliere il patto che ci legava: già allora lo avevamo fatto perché ritenevamo che le nostre scelte precedenti fossero ormai superate dall’evoluzione che c’era stata nella società italiana. Quell’Italia non c’è più. Io oggi sono un editore» (a Paolo Griseri) [Rep 12/5/2012].
Vita Figlio naturale di Renato Zampa, fratello del regista Luigi, e Jolanda Curcio, domestica pugliese di famiglia valdese: «Sono nato poco prima di mezzogiorno del 23 settembre 1941 a Monterotondo, vicino Roma. Mia madre aveva diciotto anni ed era venuta dalla Puglia a lavorare in città. A Roma faceva la cameriera nella casa di un’anziana signora, dove ha conosciuto mio padre, Renato Zampa, che all’epoca era ufficiale dell’Esercito. La loro fu la storia breve e semplice tra un uomo e una giovane donna: sufficiente però per farmi venire al mondo. Ho saputo chi fosse mio padre quando ero già grande, verso i dodici-tredici anni, e quando lui, dopo la guerra, si era messo a lavorare nei settori amministrativi del cinema. Naturalmente mia madre non aveva la possibilità di tenermi a Roma con lei. Così, a pochi mesi, mi ha portato a Torre Pellice, in Piemonte, un paesino di montagna che è la capitale dei Valdesi. Lì vivevano i suoi fratelli, Armando e Duilio, e una sorella, Nina, che lavorava come infermiera nel tubercolosario. Sono stato lasciato a balia in una famiglia del paese, i Paschetto, che mi ha cresciuto con affetto fino all’età di dieci anni» [Renato Curcio con Mario Scialoja, A viso aperto ugomariatassinari.it] • «Il primo grandissimo trauma: nel ’45 la morte di zio Armando. Aveva vent’anni quando io ne avevo quattro e giocava sempre con me come un fratello maggiore, mi portava nei boschi, mi insegnava i nomi delle piante e degli animali» [ibid.] • Adolescenza travagliata, tra bocciature, spostamenti e rapporti discontinui con i genitori: «Alla fine delle elementari mia madre, probabilmente in accordo con mio padre, prese sulla mia testa una decisione drammatica: quella di trasferirmi dalle montagne in un collegio di preti vicino Roma, il Don Bosco di Centocelle. Fu un brutto colpo, e decisi subito di ribellarmi. Mi chiusi in una sfera quasi autistica di silenzio e di rifiuto. Non parlavo, non studiavo. E scappai varie volte, traversando tutta Roma, per andare da mio zio, il regista Luigi Zampa: viveva in una lussuosa casa dei Parioli che mi piaceva molto ed era frequentata da bellissime attrici al cui profumo ero tutt’ altro che insensibile. Si trattava infatti di un’alternativa radicale rispetto a quell’ambiente cupo e gelido del collegio che mi appariva insopportabile» [ibid.] • «A sedici anni ho cominciato ad avere dei rapporti più ravvicinati con mia madre, che però allora chiamavo Jolanda e non mamma. È stata per me molto più un’amica e una consigliera che una presenza materna» [ibid.] • Primo lavoro all’Hotel Cavalieri di Milano come ascensorista • «Arriva a Trento nel 1962, con 50 mila lire in tasca. A Genova, un geometra dell’Italsider gli ha detto: “Tu sei un tipo con strani interessi, a Trento aprono un’università che fa al caso tuo”. Vince una borsa di studio, e intanto lavora come cameriere, diventa il segretario del vicesindaco dc di Trento. Vive in estrema povertà, prima nel convitto di villa Tambosi, sulla collina di Villazzano, poi si trasferisce in una comune, insieme a Mauro Rostagno e Paolo Palmieri. Protagonista della contestazione, non sarà mai figura di spicco, preferendo una vita di studio dei testi del marxismo-leninismo. Lascia Trento nell’estate del 1969 per trasferirsi a Milano, dove fonderà le Brigate rosse» [Diario] • «Era il capo carismatico delle Brigate rosse, quelle delle azioni dimostrative e degli agguati ai funzionari della Fiat, ma anche dei primi rapimenti come il sequestro del magistrato genovese Mario Sossi. Veniva dai sogni ribelli del 1968, Curcio; dal movimento studentesco di Trento dove aveva frequentato la facoltà di Sociologia» (Silvana Mazzocchi). A Trento aveva anche conosciuto Margherita “Mara” Cagol, giovane studentessa trentina borghese e cattolica, che qualche anno dopo, nel 1969, sposerà, con matrimonio religioso misto cattolico-valdese. È insieme a lei (e ad altri) che nel 1970, a Milano, fonda le Brigate rosse: «In un pomeriggio di inizio settembre, Margherita e Renato, insieme ad un altro compagno, stanno riaccompagnando a casa un operaio della Pirelli. (...) La macchina arriva a piazzale Loreto, Curcio fa un cenno ai compagni: “Guardate, è lì che le brigate partigiane hanno appeso a testa in giù Mussolini e la Petacci”. Si guardano in silenzio. Ma certo, brigata è il nome giusto. Brigata, e poi? Rossa, propone Margherita. Gli altri annuiscono. È fatta» [Stefania Podda, Nome di battaglia Mara, Sperling & Kupfer 2007] • «Mi sono sposato con Margherita Cagol, appassionata di montagna anche lei. Abbiamo passato settimane e settimane in giro per la Val di Fassa, la Val di Brenta e la Val di Genova a cercare le fonti: era un continuo stupirsi dei differenti sapori di quelle acque» [Curcio, Scialoja, cit.] • Primo nome di battaglia Armando, come lo zio morto • «Il 17 settembre la prima azione: viene incendiata l’auto a un dirigente della Sit Siemens, Pino Leoni. Curcio è l’ideologo del gruppo e rivendicherà questa e tutte le azioni compiute dai compagni armati fino a metà degli anni ’80. Assieme alla Cagol e ad Alberto Franceschini, guida le Br quando vengono uccisi Graziano Giralucci e Giuseppe Mazzola, militanti del Msi, il 17 giugno 1974: più tardi lo definirà un “incidente di percorso” (due vedove e cinque figli orfani – ndr). L’8 settembre viene arrestato. Fugge nel febbraio ’75 e torna tra le Br» [Virginia Piccolillo, CdS]. A guidare il commando che l’ha fatto evadere dal carcere di Casale Monferrato è stata la Cagol, la quale verrà poi uccisa qualche mese dopo, «il 5 giugno del 1975 alla cascina Spiotta, sulle colline di Acqui Terme, durante un conflitto a fuoco tra i brigatisti, che avevano rapito l’industriale Vallarino Gancia, e i carabinieri. Infine, il 18 gennaio del 1976 era stato arrestato la seconda volta. Quel giorno venne intercettato a Milano, in un appartamento di Porta Ticinese. Lo condannarono all’ergastolo. Anche se non aveva mai ucciso nessuno (non in prima persona: è stato però riconosciuto colpevole di “concorso morale in omicidio” per la morte di Giralucci e Mazzola – ndr), si portava addosso un fardello enorme di responsabilità per quella lotta armata che aveva già compiuto azioni e rapimenti e che presto avrebbe messo a ferro e fuoco il paese. Certo è che, dopo il suo arresto, le Br di seconda generazione alzarono il tiro e prese il via una massiccia escalation di attentati, ferimenti e omicidi. Fino alla strage di via Fani e all’uccisione di Aldo Moro, fino al feroce sbando successivo. Trent’anni dopo Renato Curcio è un manager che si dedica “a raccontare il mondo con sguardo diverso”. È il direttore editoriale di Sensibili alle foglie, casa editrice lanciata nel 1990 quando lui era ancora in carcere e poi in semilibertà. Da anni, del tutto libero, gira l’Italia con i soci-amici della cooperativa e con i libri del catalogo. E interviene nelle sale affollate, in genere per ultimo, dopo autori e presentatori. Defilato, rispettoso delle collaborazioni e dei contatti che hanno reso solida l’attività di Sensibili alle foglie e che la fanno prosperare. Tanto che ora la cooperativa va puntuale al Salone del libro di Torino. Curcio non parla del suo passato di ex capo delle Brigate rosse di prima generazione. E quando gli tocca citare il motivo che lo portò in carcere tanto tempo fa, lo definisce con qualche esitazione “una vicenda politico rivol... tosa” e si ha l’impressione che gli sia rimasta in gola la parola “rivoluzionaria”. Il suo presente, invece, lo rivendica. “Ho pagato il mio debito con la società, tutto e fino in fondo. Eravamo ancora in carcere quando pensammo alla cooperativa, e allora volevamo soprattutto costruirci un lavoro. Ma adesso funziona, mi piace, ci piace e facciamo finalmente quello che ho sempre voluto fare. Facciamo analisi socio-narrativa, vogliamo offrire un altro sguardo sul mondo raccontando storie”» [Mazzocchi] • Nel 1990 Fabrizio De André lo cita in La domenica delle salme: «Nell’assolata galera patria il secondo secondino / disse a “Baffi di Sego” che era il primo / “Si può fare domani sul far del mattino” e furono inviati messi / fanti cavalli cani ed un somaro / ad annunciare l’amputazione della gamba / di Renato Curcio / il carbonaro». Spiega De André chiedendone la liberazione: «Il riferimento a Curcio è preciso. Io dicevo semplicemente che non si capiva come mai si vedevano circolare per le nostre strade e per le nostre piazze, piazza Fontana compresa, delle persone che avevano sulla schiena assassinii plurimi e, appunto, come mai il signor Renato Curcio, che non ha mai ammazzato nessuno, era in galera da più lustri e nessuno si occupava di tirarlo fuori. Direi solamente per il fatto che non si era pentito, non si era dissociato, non aveva usufruito di quella nuova legge che, certamente, non fa parte del mio mondo morale... Il riferimento poi all’amputazione della gamba, voleva essere anche un richiamo alla condizione sanitaria delle nostre carceri» • Nel marzo 2007, alla Stazione Marittima di Napoli per presentare il volume Il carcere speciale (curato dalla moglie Maria Rita Prette e pubblicato da Sensibili alle foglie), viene contestato da una trentina di esponenti di Alleanza Nazionale. Nelle stesse ore Grazia Ammaturo, figlia del dirigente della squadra mobile di Napoli Antonio Ammaturo, assassinato nel 1982 proprio dalla Br, scrive ai giornali una lettera in cui dice tra l’altro: «Fino a quando si abuserà della nostra pazienza, del nostro riserbo, del nostro dolore?». Reazioni e dibattiti simili si sono ripetuti spesso nel corso degli anni, in occasione delle frequenti apparizioni pubbliche di Curcio (gradito ospite di biblioteche, università, librerie ecc.)
• Qualche mese dopo, in agosto, grandissimo scandalo destano le dichiarazioni dell’attrice francese Fanny Ardant, che, intervistata dal settimanale A, dice: «Per me Renato Curcio è un eroe». Sommersa di critiche, il giorno seguente chiese scusa ai familiari delle vittime • In dicembre, infine, un quadro della pittrice palermitana Daniela Papaia rappresentante una deposizione dalla croce con un operaio al posto di Gesù, in procinto di essere esposto a Palazzo Marini (sede distaccata della Camera) in una mostra sulle «morti bianche», viene rispedito al mittente: il lavoratore adagiato fra le braccia dei colleghi assomiglia troppo a Curcio • «Bisogna stabilire se, per un assassino condannato per concorso in omicidio, il reinserimento dell’ex detenuto sia riciclaggio oppure rilancio sociale. Quando si consente a un Curcio o ad altri di scrivere su quotidiani nazionali o di esprimersi come opinionisti in tv, equivale a prendere un pedofilo uscito dal carcere e metterlo alla guida di uno scuolabus» [da un’intervista rilasciata ad Andrea Morigi da Massimo Coco, figlio di Francesco Coco, il procuratore generale di Genova ammazzato dalle Br l’8 giugno 1976) [Libero] • «Io parlo solo del mio lavoro di ricercatore, il resto non mi interessa. Non salgo in cattedra e non sono un cattivo maestro» • Nel 2009 Curcio si lamenta perché l’Inps non gli ha concesso la pensione: «Ho 67 anni e sono costretto a lavorare finché potrò perché l’Inps mi ha comunicato che non ho diritto alla pensione. Eppure io ho lavorato nei vari carceri, ma risulta che non sono stati versati contributi adeguati. Quindi non avrò mai un assegno pensionistico. E non ho diritto nemmeno alla pensione sociale, di povertà per intenderci, perché sono sposato e mia moglie ha un reddito. Quindi, non ho diritto a nulla» [Marco Castelnuovo, Sta] • Nel 2007 la sua storia d’amore con Mara Cagol è diventata una pièce teatrale: Un po’ dopo il piombo (di e con Giangilberto Monti; la Cagol era Roberta Mandelli). Del 2011 è invece il primo allestimento di Avevo un bel pallone rosso (di e con Angela Dematté, regia di Carmelo Rifici), spettacolo sulla vita della Cagol e i suoi rapporti con il padre e con Curcio (grande successo e molte repliche, anche negli anni successivi) • Nel 2013, con altri ex brigatisti e membri della sinistra extraparlamentare, partecipa ai funerali di Prospero Gallinari, a Coviolo (Reggio Emilia), suscitando accese polemiche e una denuncia (archiviata) • Ha scritto diversi libri, da ultimo L’algoritmo sovrano. Metamorfosi identitarie e rischi totalitari nella società artificiale (2018) • Sposato in seconde nozze dal 1995 con Maria Rita Prette, detta Marita (una ex terrorista di venti anni più giovane, ora presidente della cooperativa e scrittrice), dalla quale ha avuto una figlia.
Titoli di coda «La mia storia può essere letta come un susseguirsi di “rinascite” e di discontinuità: una caratteristica che considero positiva».