il Fatto Quotidiano, 11 ottobre 2022
Fabbricare il falso e mandarlo in onda
HANNO LAVORATO nelle redazioni della “tv populista”, tra “zingari” da far parlare e nemici da creare. Hanno scritto un libro “Caccia al ner” che spiega la “macchina” che solletica le paure e la rabbia del Paese
Questo libro è il risultato dell’opera collettiva di un gruppo di ex lavoratori della televisione populista. I principali fatti narrati sono reali, ma avvenuti in tempi, luoghi e forme talvolta diversi da quelli riportati. Abbiamo deciso di adottare la formula del racconto, condensando nella storia del protagonista le singole esperienze di ciascuno di noi e dando loro una struttura coerente grazie agli strumenti della scrittura di fiction. Tutti i nomi sono stati modificati oppure omessi, a cominciare dai nostri. (…)
Il primo colloquio lo feci nel ristorante interno all’azienda. Era l’inizio di settembre, faceva caldo. (…) L’autore, un tizio un po’ cicciotto, premise di essere a dieta e ordinò un carpaccio in insalata. Poi iniziò a parlarmi degli zingari. “Uhm… hai presente come parlano quelli? Voglio dire, con quella parlata così buffa che hanno loro…” mugugnò, pulendosi la bocca col tovagliolo di carta. “Ehm, voglio dire, fanno un po’ ridere, no? Ecco, prendi uno zingaro, gli metti un microfono sotto il naso. ‘Vogliamo casa, vogliamo appartamento’. La gente si incazza di brutto, il pubblico in studio inizia a urlare, si agita. Ma come? Quelli rubano da tutte le parti e poi vogliono anche la casa? È meraviglioso, no?” (…) Non erano solo gli zingari, naturalmente. Poteva essere chiunque, tutto dipendeva dalla sceneggiatura, che di volta in volta era vergata con un sapiente piglio quasi cinematografico. Ma questo lo avrei capito meglio in seguito. Gli zingari, comunque, erano saldamente in testa alla playlist. L’autore un po’ cicciotto si chiamava Gigi. Non credo che odiasse gli zingari, e nemmeno gli immigrati, gli islamici o i comunisti. Era uno che lavorava, come tutti. (…)
Era entrato in vigore il reddito di cittadinanza, e la cosa evidentemente non andava bene. Me lo comunicò Gigi, al telefono. “Hai capito la storia?” mi disse. “Questi se ne stanno a casa in pantofole a pigliarsi i soldi, no? Cioè, si pigliano i soldi per non fare un cazzo, ti pare?”. A me la questione sembrava più complessa, ma era il mio primo servizio e mi guardai bene dall’obiettare. “Ci facciamo un’inchiesta”. (…) Verso sera mi arrivò un messaggino su WhatsApp. C’era soltanto un link, che rimandava a un breve articolo di giornale: Palermo, imprenditore cerca dipendenti a tremila euro al mese. “Colloqui deserti, nessuno vuole rinunciare al reddito”. Non conoscevo il mittente, ma la testata dove era stato pubblicato il pezzo era un foglio di destra noto per i titoli urlati e l’aggressività di molte sue firme. Il testo del servizio era piuttosto scarno: c’erano giusto un paio di virgolettati, certamente raccolti al telefono, cui facevano seguito alcune cupe considerazioni su come l’assistenzialismo statalista avrebbe finito col gettare sul lastrico l’onesta classe imprenditoriale di questo paese. Stavo ancora finendo di leggere, quando il misterioso mittente mi fece di nuovo squillare il telefono. “Ciao caro, ti ho mandato la tua inchiesta” squittì allegra una voce di donna. “Facile facile, per cominciare. Ah… e di’ un po’, sei contento che non ti mandiamo dagli zingari?” (…) Il mio interlocutore si chiamava Ginevra ed era la capoautrice della trasmissione. La sua voce, dallo spiccato accento romano, suonava ferma e sbrigativa. Anche lei – come avrei scoperto – aveva bazzicato a lungo in alcune testate di sinistra. (…) “Cioè, vuoi proprio che racconti in video quello che c’è nell’articolo?” azzardai. “Non vogliamo pescare anche qualche statistica, magari qualche altro caso?”. “Le statistiche sono cose astratte” tagliò corto lei. “Il nostro non è un pubblico da statistiche. Noi raccontiamo la vita reale, non le statistiche. Tu vai e tira fuori quello che c’è nell’articolo. Fai vedere che questi non vogliono lavorare, magari faglielo pure dire, se ci riesci. Poi torni qui e facciamo il montaggio. Hai capito?”. Avevo capito, e la cosa mi piaceva sempre meno.
L’azienda si occupava di autotrasporti e stava effettivamente incontrando difficoltà ad assumere camionisti. Era l’unico dato chiaro contenuto nell’articolo, ma il guaio è che era anche l’unico esatto. Lo scoprii la mattina dopo, quando telefonai al titolare della ditta per fissare un’intervista. Al numero del centralino rispose direttamente lui. Era un uomo dal forte accento siciliano, che doveva aver trascorso la vita a guidare autoarticolati ed era abituato a non perdere mai di vista il nocciolo delle questioni. “Ma ca rèdditu e rèdditu” mi disse senza troppi fronzoli. “L’unico problema qui è pigghiari la patente…”. L’equivoco fu presto chiarito: non è che i lavoratori preferissero starsene a casa con cinquecento euro di sussidio piuttosto che pigliarne tremila faticando, erano operai, mica imbecilli. Il fatto è che per guidare il camion serve la patente C, e la patente C costa un occhio della testa. Semplicemente, molti disoccupati non potevano permettersela. Perciò, dopo aver inviato il curriculum, finivano col fare marcia indietro, ritirando la propria candidatura. Il reddito di cittadinanza, checché ne scrivesse il collega, c’entrava poco o nulla. La scoperta mi ringalluzzì di colpo. Avevo smascherato una falsa notizia, e per farlo mi erano bastati dieci minuti di telefonata. (…) “Non ci interessano le patenti” sibilò Ginevra. “Non stiamo facendo una puntata sulle patenti. A noi interessa il reddito di cittadinanza.” (…)
“Ora gli facciamo dire due cose su quanto jè merdoso chistu governo, facciamo tre coperture dell’azienda, qualche stand-up e siamo a posto. Eh… due minuti di servizio devi fari, mica un documentario”. “Ma quelli vogliono che si parli del reddito” obiettai per l’ennesima volta. “E u reddito nuautri glielo diamo! Mica ci vuole tanto. Basta chi iddu ci dica dui frasi supra u reddito. Ne mettiamo una a inizio servizio e un’altra alla fine, poi ci saranno i tuoi speech.” (…) “Ascolta” disse, “primi venti secondi del servizio, lui ci dice chi u reddito jè ’na sciagura. Dopo entri te: ‘Pi colpa du reddito nessuno viene più a lavorare pi chista azienda’. D’accordo? Poi ci mettiamo le telefonate, che sono belle. E poi di nuovo lui: ‘U governo fa schifu, ci stannu i tasse e u reddito jè ’na mmedda’ (…)”
Stavamo fabbricando il falso, ma a questo punto non me ne importava più granché. (…) Il servizio andò puntualmente in onda, e fu proprio come avevo temuto che fosse. Le quattro frasi di Domenico sul reddito di cittadinanza erano state posizionate con maestria, un paio in testa e un paio in coda, tutto il resto era stato impietosamente tagliato. Poi c’erano i miei stand-up, che ribadivano la questione del reddito e introducevano le telefonate con gli aspiranti lavoratori. Questi ultimi emergevano come degli autentici farabutti, giustamente strigliati da Domenico in un crescendo di musiche drammatiche. Nell’insieme risultava tutto molto convincente, e il banner rosso e nero inserito a piè di schermo – Tremila euro al mese? No grazie, tanto ci mantiene lo Stato – non appariva neanche troppo forzato.