il Giornale, 11 ottobre 2022
I fiancheggiatori del male
Perché nell’arte e nella letteratura spesso amiamo più i personaggi cattivi dei buoni, perché gli anti-eroi malvagi ci appaiono meno noiosi dei virtuosi, perché in definitiva preferiamo il male al bene? Sono quesiti antichi, dai tempi di Aristotele e delle sue teorie sulla tragedia, a cui tentano di dare risposta contemporanea Stefano Ercolano e Massimo Fusillo, entrambi docenti di Critica Letteraria e Letterature comparate, in un saggio di grande rigore accademico, ma nello stesso tempo godibile come una baedeker utile per una tranquilla passeggiata nel wild side dell’estetica, tra neuroscienza, psicologia e filosofia (Empatia negativa. Il punto di vista del male. Bompiani, pagg. 400, euro 14).
La risposta avrebbe a che fare con l’empatia che può essere positiva o negativa, quel sentimento cioè di attrazione o di repulsione che proviamo davanti all’emozioni di chi ci sta di fronte. Se nel caso dell’empatia positiva tendiamo a fonderci con l’altra persona, risuoniamo in lei (e in questo senso funzionano i neuroni a specchio che ci inducono all’imitazione e a mettere in atto comportamenti altruistici), nel caso dell’empatia negativa ci allontaniamo da essa, ce ne distinguiamo, e questo meccanismo, comunque utile, secondo gli psicologi sarebbe alla base dell’individuazione del nostro io rispetto agli altri.
Ovviamente, siamo inclini a empatizzare più con soggetti od oggetti che ci procurano piacere e, al contrario, rifiutiamo le cose spiacevoli che ci mettono in difficoltà, ma nel campo estetico la prevalenza tende a invertirsi: da un lato, l’esperienza negativa – vissuta comunque col distacco che permette l’arte – genera catarsi, cioè una sorta di purificazione, poiché vedendo il male altrui scontiamo il nostro; dall’altro, proprio la distanza e la estraneità dai fatti messi in scena ci permette una empatizzazione completa e prolungata anche con personaggi totalmente negativi (assassini, traditori, maniaci, impostori, di cui è piena la letteratura) che nella vita reale ci è impedita dalla cosiddetta barriera della moralità e che invece nell’arte si traduce nel sublime, cioè in quel «delightful horror» per dirla con Burke, nell’orrore dilettevole, nella sensazione di spavento ma nello stesso tempo di piacere e di sicurezza dello spettatore che – aveva già intuito Lucrezio – guarda l’affanno del marinaio in tempesta standosene sereno sulla spiaggia. L’arte, di fatto, ci permette di percepire la negatività e il brutto come qualcosa di piacevole e sarebbe la funzione suprema della forma, quella di emendare estetizzandolo il male.
«Catarsi», dunque, e «orrore dilettevole» sono i poli su cui si fonda la nostra preferenza per il male quando si tratta di libri, teatro, film e serie tv, di cui il saggio offre amplia casistica, dallo stupratore Nikolaj Stavrogin, protagonista de I demoni di Dostoevskij, al pedofilo Humbert Humbert innamorato dell’adolescente Lolita, dalla infanticida Medea fino al freddo criminale Walter White di Breaking Bad.
Nel caso dell’arte visiva c’è di più. Ed è su questo punto che il saggio offre un’interessante sintesi tra le teorie di inizio Novecento da un lato di Theodor Lipps, il propugnatore della nozione di «empatia», e dall’altro di Wilhelm Worringer, il sostenitore della nozione di «astrazione», essendo che le prime spiegano perché troviamo gratificazione nella bellezza del mondo organico, le seconde perché ci capita di preferire le cose inorganiche che negano la vita, essendo che le prime si attagliano perfettamente al naturalismo artistico della Grecia antica e dell’Italia rinascimentale, le seconde invece applicabili a tutto il resto, dai mosaici piattissimi dei bizantini fino ai dripping altrettanto superflat di Pollock.
Alla base dell’impulso di astrazione Worringer pone un sentimento di angoscia nei confronti della vita e non di nostalgia come voleva Lipps, e il compito dell’arte starebbe proprio nel soddisfare una profonda esigenza psichica dell’uomo che non si risolve nel piacere di imitare e riprodurre il modello della natura, in un felice rapporto di panteistica fiducia fra l’uomo e i fenomeni del mondo esterno, semmai il contrario: l’impulso di astrazione è conseguenza di una grande inquietudine interiore provata dall’uomo di fronte a essi, e il compito fondamentale dell’arte è di tipo apotropaico, come se servisse «a trovare una quiete nella fuga dei fenomeni, disinnescando la primordiale ansietà spaziale dell’uomo attraverso la trasposizione della rappresentazione artistica su una superficie piana». Worringer fa del sentimento di angoscia il motore della creazione artistica e la chiave della sua comprensione, un’arte che serve a redimere dalla casualità dell’esistenza umana, dall’arbitrarietà della vita organica, attraverso la contemplazione di qualcosa di necessario e inalterabile, o ancora meglio di qualcosa che turba, «un’esperienza estetica tensiva, euforica e disforica, piacevole e angosciosa», consistente nell’identificazione ambivalente dello spettatore con una figura negativa, o nell’empatizzazione da parte sua di una certa atmosfera associata a emozioni negative primarie (tristezza, paura, rabbia, disgusto), sociali (imbarazzo, colpa), o di fondo (malessere, tensione, agitazione, instabilità). Da qui, il coinvolgimento empatico che inducono le performance, per esempio la celeberrima Rhythm 0 di Marina Abramovi in cui l’artista nuda, esposta al ludibrio degli spettatori, rischiò quasi una rivoltellata, oppure i tagli che si produceva Gina Pane, l’autolesionismo di Schwarzkogler e di Brus, i digiuni prolungati di Chris Burden, fino ai sanguinolenti riti orgiastici di Hermann Nitsch che un tempo provocavano disgusto e che oggi trovano santificazione nei musei. E grazie allo stesso meccanismo d’angoscia, ci attraggono, per esempio, le fotografie di Robert Mapplethorpe, inno al BDSM, in cui l’esposizione di genitali in chiave di dominazione e sottomissione, di sadismo e masochismo, trovano raffinata, classicheggiante rappresentazione, per esempio nel celebre X Portfolio conservato al LACMA di Los Angeles.
Ci sarebbe anche altro: secondo i più recenti studi di neuroestetica, la disciplina che si occupa dei riflessi dell’arte sui nostri neuroni, i quadri attiverebbero veri «meccanismi incarnati» in grado di simulare azioni, emozioni e sensazioni corporee nello spettatore; davanti ai Prigioni di Michelangelo i nostri muscoli vengono attivati quasi dovessimo anche noi slegarci dalla pietra; davanti a un taglio di Fontana proviamo un senso di coinvolgimento corporeo indotto dai movimenti implicati dalle tracce fisiche. Così si spiegherebbero molte opere, a partire dal capolavoro di Caravaggio, il Martirio di san Matteo che ricopre la parete destra della cappella Contarelli nella chiesa di San Luigi dei Francesi a Roma, davanti al quale siamo quasi costretti ad empatizzare con il carnefice al centro della tela, imponente e seminudo, che, tenendolo stretto per il polso, sta colpendo a morte il santo con la spada, e che cattura definitivamente lo sguardo di noi, attoniti fiancheggiatori del male.