Corriere della Sera, 10 ottobre 2022
I templari perseguitati
Nel gennaio 1129 (forse già nel 1128) si tenne a Troyes, nella Francia nordorientale, un importante Concilio. I lavori si svolsero alla presenza di Matteo di Albano, legato pontificio di Papa Onorio II. Scopo delle assise era quello di risolvere alcune dispute che riguardavano il vescovo di Parigi. Ma i convenuti sarebbero passati alla storia per aver accolto l’appello di Ugo di Payns a che fosse riconosciuto come «ordine della Chiesa» quello dei monaci cavalieri impegnati nella difesa della Terrasanta. In un certo senso – spiega con efficacia Jacopo Mordenti in I templari. Storia di monaci in armi (1120-1312) in uscita il 14 ottobre da Carocci – la via era stata aperta da Urbano II trent’anni prima, a fine novembre 1095, nel discorso di chiusura di un altro Concilio, quello di Clermont. Concilio di Clermont con il quale il Papa aveva indetto la prima Crociata. Mi raccomando a voi, «è necessario che vi sbrighiate a prestare soccorso ai vostri fratelli d’Oriente che più volte vi hanno chiesto l’aiuto di cui hanno bisogno», era stata l’esortazione di Urbano II. Un soccorso, quello invocato, «voluto da Cristo», che avrebbe dovuto impegnare «cavalieri e fanti, ricchi e poveri» per «spazzare via dalle nostre terre quella stirpe malvagia». L’aristocrazia occidentale nel suo complesso (a differenza dei tiepidi sovrani dell’epoca) aveva risposto «con fervore» all’appello del Pontefice. Tra l’agosto e il settembre del 1096 partirono per l’Oriente contingenti che contavano, ognuno, «decine di migliaia di persone con equipaggiamento e animali al seguito», scrive Mordenti. Quasi «delle piccole variopinte città in viaggio, speranzose e indebitate, da gestire e soprattutto da rifornire in corso d’opera». Presto si sarebbe posto il problema di qualcuno che difendesse in maniera stabile queste comunità.
Una volta ottenuto il loro scopo, soccorritori e pellegrini avrebbero avuto, infatti, bisogno di una «protezione armata». Fu subito chiaro che tale protezione poteva essere garantita soltanto da un corpo speciale composto da uomini ad un tempo monaci e combattenti. Necessità che si rese evidente in maniera definitiva allorché nel 1119 truppe musulmane tesero un’imboscata ad un gruppo in visita sul Giordano, uccidendo trecento persone e catturandone sessanta. Fu a quel punto che venne costituito l’Ordine dei Templari il quale, secondo la successiva testimonianza di Giovanni da Würzburg, si insediò in un Tempio edificato da Salomone (di qui il loro nome: «Poveri compagni d’armi di Cristo e del tempio di Salomone», abbreviato in «Templari»).
Alain Demurger in Vita e morte dell’Ordine dei Templari (Garzanti) ha ben descritto i problemi che si posero per la loro doppia natura di «monaci» e «combattenti». Demurger ha poi raccontato l’inatteso successo, soprattutto a carattere economico, che quasi fin dall’inizio caratterizzò questa istituzione. L’ordine, scrive Glauco Maria Cantarella nella prefazione al libro di Mordenti, «ricevette in dono di tutto da ogni categoria sociale; ottimizzò al meglio le risorse e al contempo ne fu ottimizzato nella gerarchia, lungo una catena di comando che si irradiò dall’Oriente latino a Parigi, a Londra, all’Europa intera». I Templari furono «attivissimi nelle attività finanziarie», prosegue Cantarella, «spesso i loro primi clienti furono i Papi e i sovrani».
Il loro impero economico – ha scritto Malcom Barber in La storia dei Templari. Vita avventurosa, storia e tragica fine dei leggendari monaci guerrieri (Piemme) – diventerà più importante delle loro imprese militari. E, come ha spiegato Simonetta Cerrini in L’apocalisse dei Templari. Missione e destino dell’ordine religioso e cavalleresco più misterioso del Medioevo (Mondadori), per paradosso saranno proprio le loro fortune a causarne, nel giro di due secoli, la fine.
Mordenti è assai circostanziato nel ricostruire la guerra che, a partire dall’autunno del 1307, investì l’ordine di questi monaci combattenti (ma, a questo punto, soprattutto banchieri). Era già accaduto – ha messo in evidenza Nicholas Morton in Gli ordini religiosi militari (il Mulino) – che le ricchezze dei Templari venissero confiscate, «in particolare quando le finanze di un regno scarseggiavano». Nel 1263, ad esempio, il principe Edoardo d’Inghilterra (futuro Edoardo I) «aveva fatto irruzione nella casa templare di Londra e rubato», scrive Morton, «ingenti quantità di oggetti di valore». Ma nel 1307 il caso si porrà in termini assai più gravi: il re di Francia Filippo IV detto il Bello, reduce da guerre assai impegnative – prime tra tutte quelle con le Fiandre e con l’Inghilterra – che gli avevano provocato grandi difficoltà economiche, decise di farli fuori del tutto per impossessarsi del loro patrimonio. A tal fine li accusò di eresia avvalendosi della «confessione» di uno di loro, Ugo di Pairaud. Al cospetto di un inquisitore, il di Pairaud rivelò di aver «rinnegato Cristo», «sputato sulla sua immagine e sulla croce», «scambiato baci illeciti», «adorato un falso idolo» e «consentito atti di sodomia». Il tutto nel corso di ben 44 anni di presenza nell’Ordine.
In realtà, come spiega Mordenti, la scandalosa confessione giunse a conclusione di un decennio in cui re Filippo – tramite il suo cancelliere Guglielmo di Nogaret – aveva già iniziato a muovere all’attacco dei Templari nell’ambito di un violentissimo scontro con papa Bonifacio VIII. Tale conflitto toccò il culmine nel 1303 con la scomunica da parte di Bonifacio del re francese a cui seguì, ad Anagni con la complicità di Giacomo Sciarra Colonna, l’oltraggio nonché il breve sequestro del Pontefice stesso. La partita con i Templari che l’uomo di Filippo il Bello giocherà ancor più esplicitamente dal 1305 non avrà, secondo Mordenti, un carattere esclusivamente finanziario. Sarà soprattutto politica. L’obiettivo di Nogaret era quello di «cucire un bersaglio addosso al Tempio» per «mettere sotto pressione» Clemente V, il successore di Bonifacio (morto nell’ottobre di quello stesso 1303). Tutto ciò «per avviare il processo alla memoria di Bonifacio VIII e risolvere gli strascichi di Anagni che lo vedevano coinvolto in prima persona». Nogaret «lavorò con cura al dossier, raccogliendo le testimonianze di ex templari e perfino servendosi di alcuni di essi come talpe».
Si giunge così all’estate del 1307. Filippo il Bello muove all’attacco convocando il gran maestro Giacomo di Molay per contestargli le «prove» contro i Templari raccolte da Nogaret. Giacomo di Molay corre ai ripari chiedendo a papa Clemente V di aprire a sua volta un’inchiesta che renda possibile scagionare l’Ordine. Il Pontefice risponde di sì ma il 24 agosto fa sapere che l’indagine inizierà solo a partire da ottobre perché ha bisogno del mese di settembre per curarsi da alcuni suoi gravi malanni. E qui Filippo gioca d’anticipo. Dedica l’intero settembre alla preparazione dell’offensiva e il 13 ottobre – mentre stanno per iniziare i lavori dell’inchiesta papale – fa scattare in tutto il regno di Francia una retata che coinvolge oltre cento Templari. Edoardo II d’Inghilterra e Giacomo II d’Aragona – ricevuta da Filippo una lettera in cui li si informa dell’iniziativa – fanno finta di niente e non prendono provvedimenti. Ma nel giro di poche settimane giunge dalla Francia la notizia che ben 134 Templari (su 138 tratti in arresto) hanno confermato il quadro accusatorio che ricalca i modelli della guerra contro l’eresia catara e quella valdese. Il 21 ottobre il templare normanno Goffredo di Charney nel corso dell’interrogatorio crolla e conferma «almeno in parte» l’esistenza del «rituale segreto» che gli si contesta. Tre giorni dopo è la volta del gran maestro dell’Ordine Giacomo di Molay che ammette il «rinnegamento di Cristo» e lo «sputo sulla croce». Il gran maestro di Molay ordina ai Templari di «dire la verità», nei fatti suggerisce ai suoi di «riconoscere le accuse degli inquisitori». Il 9 novembre è la volta delle ammissioni delle quali si è detto, le più dettagliate e per certi versi definitive, da parte di Ugo di Pairaud. La sua, scrive Mordenti, è una confessione evidentemente «non spontanea»: viene ascoltato nello stesso giorno una prima e poi una seconda volta non per ritrattare ma per «correggere» le proprie affermazioni in modo che non ci siano discrepanze con le altre. Ma ancorché sia una confessione ad ogni evidenza estorta, l’effetto è enorme.
Clemente V, preso in contropiede, si rende conto, spiega Mordenti, che è «impossibile fermare il meccanismo messo in moto da Filippo il Bello». L’unico modo che ha di intervenire è quello di provare ad assumere il controllo della macchina infernale ordinando l’arresto di tutti i Templari e mettendo i loro beni sotto tutela ecclesiastica. Immediatamente procede in tal senso con una bolla, Pastoralis praeeminentiae, emanata il 22 novembre. I sovrani d’Europa si adeguano con maggiore o minore velocità a seconda della loro sintonia con il re di Francia. A questo punto papa Clemente spedisce alla corte del re Filippo due suoi emissari, Berengario Fredol e Stefano di Suisy, che chiedono la consegna alla Chiesa dei Templari arrestati. Il re è costretto ad obbedire (sia pure solo parzialmente) all’ingiunzione. Deve consegnare ai cardinali Giacomo di Molay, il quale immediatamente (dicembre 1307) ritratta la confessione resa due mesi prima. Trascorrono altri due mesi: Clemente, sulla base della ritrattazione del di Molay e di altri, annulla i procedimenti avviati dal re di Francia e sospende l’azione degli inquisitori.
La risposta di Filippo è velocissima: fa diffondere libelli anonimi che accusano il Pontefice di eresia e, tra le righe, minaccia di riservargli lo stesso trattamento usato per Bonifacio VIII. Clemente resiste e chiede di poter interrogare personalmente i più importanti tra gli accusati. Ma un primo incontro diretto, a Poitiers, salta. Poi Filippo accetta. Il colloquio/interrogatorio avverrà nel suo castello di Chinon tra il 17 e il 20 agosto 1308 e sarà presente, assieme ai tre cardinali mandati dal Pontefice, anche Guglielmo di Nogaret. A sorpresa – come ben ricostruisce Barbara Frale in Il papato e il processo ai Templari. L’inedita assoluzione di Chinon alla luce della diplomatica pontificia (Viella) – Giacomo di Molay ritratta la precedente ritrattazione, ottenendo per sé e per i suoi l’immediato perdono da parte dei cardinali per conto del Papa stesso. Soluzione «politica». Clemente V ribadisce una volta per tutte la propria competenza per quel che riguarda il giudizio ultimo sui dignitari dell’ordine. Quanto ai beni dei Templari sul suolo di Francia, è Filippo il Bello a esserne «provvisoriamente affidatario», in ragione del fatto che il re tiene sotto custodia i Templari di Francia «su mandato della Chiesa».
A questo punto però è il Papa a trovarsi in difficoltà. Più passa il tempo, più vengono alla luce prove dell’inconsistenza delle accuse ai Templari. Clemente V «ne è irritato». Lo scontro in atto con Filippo il Bello, scrive Mordenti, «non consente passi falsi». Perciò, «esasperato dalla generale modestia dei risultati delle commissioni diocesane», il Papa decide di rivedere «la forma e la sostanza dei procedimenti contro i Templari». Il caso più spinoso è quello provocato, nel 1311, dall’arcivescovo ravennate Rinaldo da Concorezzo che rifiuta di ricorrere alla tortura e dichiara i Templari innocenti. Il Papa gli ordina di riaprire il processo e, in caso di mancate ammissioni, di torturare gli accusati. L’arcivescovo rifiuta. Il compromesso di Chinon si è ritorto contro Clemente V, che adesso si ritrova dalla stessa parte della barricata di Filippo il Bello. Anzi, è lui ancor più del re di Francia che si vede costretto ad esigere confessioni e torture laddove come è ovvio non ci sono prove della colpevolezza dei Templari. Il tutto troverà conclusione nel rogo a cui sarà mandato nel 1314 Giacomo di Molay (assieme a Goffredo di Charney). Una leggenda riferita da Demurger afferma che in punto di morte l’ultimo gran maestro dell’Ordine dei Templari lanciò una maledizione contro Clemente V e Filippo il Bello. I quali di lì a breve, potenza (forse) della maledizione, andranno incontro alla morte nello stesso 1314.