Corriere della Sera, 10 ottobre 2022
Ritratto di Antonio Di Pietro
Al nostro primo incontro, me ne torno al giornale con un piede rotto. Niente violenze «messicane», per carità: solo la mia ansia da cronista ragazzino, buio e nebbia milanese. Sì, c’è ancora la nebbia a Milano quella sera di dicembre 1987 e alla caserma della Celere di via Cagni, tra Niguarda e Bicocca, ovatta gli spigoli e avvolge i lampeggianti dei cellulari che scaricano 102 arrestati pronti per essere torchiati: medici e notai, funzionari comunali, faccendieri e ispettori della motorizzazione, tutti catturati nell’inchiesta sulle patenti facili.
In quella bolgia dantesca si sente il vocione di un Caronte molisano che dirige le operazioni, «qua, qua, portatemeli qua!»: è lui, Antonio Di Pietro, detto Tonino, il giovane pubblico ministero maniaco di informatica che ha fiutato tanfo di bruciato negli esami di guida passati da tanti con troppa disinvoltura e, fascicolo dopo fascicolo, è risalito allo gnommero, il groviglio di quella micro-corruzione meneghina. Lo condisce con sapienza manco avesse acchiappato la Piovra, a uso e consumo dei giovani cronisti di nera «informalmente» avvisati della retata dalla Polizia: «Capisci a ’mme, dottorino» (ci chiama tutti dottori e dottorini, un po’ per celia e un po’ per celare la distanza con noi, ragazzini-bene dagli studi comodi che a lui, ex ragazzo sfuggito ai campi di Montenero di Bisaccia, sono costati migrazione, doppi lavori e notti insonni).
Saltabecca da un arrestato all’altro, perciò li ha voluti tutti assieme come un gregge, li coglie in contraddizione, sbraita, verbalizza, ammicca, tratta: è un ante litteram di sé stesso. Sto assistendo alla nascita di un metodo ma ancora non lo so. Comprendo bene, invece, che devo correre ad avvisare il giornale e quindi trovare un telefono a gettoni (al tempo non esistono i cellulari!). Trovo invece un buco nel marciapiede, mi ci infilo come un tonno, il resto è gesso.
All’incontro successivo, quattro anni dopo, sono già a Palazzo di giustizia, corso di Porta Vittoria, secondo di giudiziaria del Corriere. Lui, Tonino, è nella sua stanza, la 254, che diventerà mitico crocevia di sommersi e salvati ma per ora è solo un parametro antropologico, misura la distanza col procuratore Borrelli, il cui ufficio sta dall’altro capo dello sterminato corridoio ad angolo: in mezzo, decine di sostituti impregnati di «cultura della giurisdizione» che guardano Tonino, ex commissario di Ps, come un entomologo guarda uno scarafaggio (pure reazionario: «Qui non si sciopera», affigge infatti lui sulla porta, in occasione di una protesta dell’Anm, guadagnandosi l’amore di Cossiga).
In realtà lo scarafaggio è uno scarabeo d’oro. Quando gli arriva l’occasione della vita, l’arresto del boiardo craxiano Mario Chiesa con le mani dentro sette milioni (di lire) di mazzetta, Di Pietro ha alle spalle così tanta esperienza di mondi e sottomondi e così tanta fortuna da trasformarla nella rivoluzione giudiziaria a lungo inseguita e sempre mancata dai suoi più dotti colleghi.
Gherardo Colombo, per dire, aveva acchiappato due volte il drago per la coda, con la P2 e i fondi neri dell’Iri, ma era stato fermato. Francesco Greco s’ era visto sfilare dalle mani Antonio Natali, il papà politico di Craxi, imbuto di tangenti milanesi. Persino la caduta del Muro di Berlino congiura invece nell’aiutare il nostro ex sbirro, stavolta (gli italiani non hanno più paura di cambiare sistema: e il sistema crolla). Lui, temendo che l’inchiesta gli si possa comunque chiudere addosso, nei primi mesi tiene un filo teso con noi cronisti (siamo le seconde linee, perché nessuno pensa che Chiesa parli davvero e che l’indagine vada lontano: poi, quando Chiesa parlerà, le fonti saranno tutte nostre e nessuno potrà più rimpiazzarci).
«Capisci a ’mme , dottorino», ammicca con ognuno (birra e salsicce, direbbe Totò), sempre con l’aria di fare a ciascuno un favore «in esclusiva», gettandogli qualche brandello di notizia inoffensivo per l’indagine ma prezioso per tenere desta l’opinione pubblica. Una sera, alla rassegna stampa di mezzanotte in tv, vedo che la concorrenza ha uno scoop, un nuovo conto svizzero scoperto a Chiesa: mi appare un «buco» terribile, mi immagino un sacrosanto cazziatone dal mio capocronista.
Nonostante l’ora, chiamo Tonino a casa, urlando, fuori di me. Lui, mezzo addormentato, anziché farmi arrestare (avrebbe dovuto...), farfuglia scuse, giura che la notizia è falsa. Naturalmente la notizia è verissima ma a Di Pietro serve tenerci tutti buoni, persino me, tutti sotto la sua ala, in quel primo periodo in cui il sistema può ancora serrarsi a riccio e stritolarlo.
Di solito ci riceve nella stanza 254 verso le sette di sera, introdotti da un ex poliziotto che un po’ gli somiglia, Rocco Stragapede, passo strascinato e sussiego da gran ciambellano. Tutti quelli della sua squadretta un po’ gli somigliano. Faticano come muli ma comunicano sempre un’idea di trattativa, una specie di patteggiamento a prescindere. Lui ci aspetta come in un B-movie americano, coi piedi sulla scrivania. Si tira su i calzoni e si gratta le caviglie con voluttà, « capisci a ’mme , dottorino».
Paolo Colonnello, il collega del Giorno che ha con lui più confidenza, lo chiama « zanzone », imbroglione, in milanese. Tonino se ne compiace, gli/ci regala una risatona tonitruante, fuori in strada sta venendo giù la Prima Repubblica. La gente ha fiaccole in mano, cartelli, «Di Pietro, liberaci dal male», in un Paese sempre malato di bipolarismo etico (oggi tutti forcaioli, domani tutti evasori e via col pendolo). Quando comincio a pubblicare fuori dal suo circuito, non lo sopporta. Mi dedica una scomunica in dipietrese: «Fuggitore di notizie!».
Pensiamo di sfotterlo, ruvido com’ è: ma è lui che prende in giro tutti noi. Anche questa sua neolingua, che ne enfatizza il deficit scolastico, è un trucco geniale, buono per incantare gli italiani appiccicati alla diretta tv del processo Cusani, il vero dibattimento spettacolo di Mani pulite: ecchéc’azzecca ? La sua è la scommessa di un gambler , la magia di un illusionista. I giocatori d’azzardo non amano chi va a vedere il bluff, i prestigiatori amano ancor meno chi ficca il naso nella valigia dei trucchi. Così, per non litigare con lui, tocca credergli (ricordando sempre che è uscito immacolato dai numerosi processi subiti a causa delle vendicative denunce di molti suoi imputati).
Tocca credergli e basta. Quando dichiara ai giudici di Brescia di non essersi sentito ricattato dal ministro Previti col preannuncio di un’ispezione ad personam , così spingendolo a mollare toga e colleghi prima di torchiare Berlusconi. Quando per spirito di servizio, certo, si fa eleggere senatore coi voti di un partito da lui inquisito appena tre anni prima. Quando fonda poi la sua Italia dei Valori per rilanciare la questione morale in politica e infatti seleziona Razzi, Scilipoti e De Gregorio. Tocca credergli. E io gli credo. Capisci a ’mme, Toni’ .