il Fatto Quotidiano, 10 ottobre 2022
Mps, la banca “risanata” che ha bisogno dell’ennesimo aumento di capitale
“Oggi la banca è risanata e investire è un affare. Su Mps si è abbattuta la speculazione, ha attraversato vicissitudini pazzesche ma è un bel brand. Forse deve trovare dei partner” che sperabilmente avrebbero dovuto essere italiani. In un’intervista al Sole 24 Ore del il 21 gennaio 2016 Matteo Renzi rassicurava così decine di migliaia di azionisti e obbligazionisti dell’istituto di Siena. In undici mesi i loro titoli erano fumo. Ora, oltre sei anni e mezzo e una ricapitalizzazione precauzionale dopo, costata allo Stato 5,4 miliardi già bruciati, il palio delle contrade morte di Siena è tornato esattamente al punto di partenza.
Non solo la banca “risanata” ha bisogno dell’ennesimo aumento di capitale per altri 2,5 miliardi – dei quali il ministero del Tesoro, ovvero i contribuenti, dovrà sborsarne 1,6 – ma sul Monte aleggia di nuovo lo spettro della risoluzione. Lo stesso pericolo letale che dovette essere sventato in fretta e furia con l’intervento pubblico del dicembre 2016 dopo il fallimento dell’aumento di capitale “di mercato”. Banca d’Italia spiegò nel 2017 che c’era da colmare un buco patrimoniale di 8,8 miliardi (alla faccia del risanamento) comunicato a Siena dalla Bce il 23 dicembre 2016 dopo gli stress test condotti dall’Autorità bancaria europea (Eba) nel luglio precedente, ma che l’aumento di capitale proposto dalla banca “non è stato portato a compimento perché non è stato possibile reperire sul mercato le risorse necessarie”.
Oggi siamo, di nuovo, esattamente lì. Per il nuovo ad Luigi Lovaglio, intronizzato a marzo dopo la “fucilazione alla schiena” in cda del suo predecessore Guido Bastianini, Mps è “risanata” (ma non del tutto, se servono subito altri 2,5 miliardi). Peccato che tutta questa salute il mercato non la veda: se la banca sta tanto bene, perché i dipendenti fuggono (le 3.500 uscite incentivate hanno visto 4.200 domande)? Perché non c’è la fila per accaparrarsi le azioni del Monte, ormai ridotte al lumicino da una sfilza di ribassi al punto che in Borsa la banca vale ormai meno di 230 milioni, un undicesimo rispetto al denaro che dovrà esserle iniettato? Nessuno pare disposto a puntare i 900 milioni che mancano da coprire rispetto alla quota del Tesoro. Tanto che Anima e Axa, partner di Siena rispettivamente nella vendita di prodotti di risparmio gestito e polizze assicurative, si dicono disposti a sganciarne qualche centinaio solo a condizione di veder aumentare le loro commissioni commerciali.
Il pericolo si misura dalla febbre a 40 delle obbligazioni Mps: nelle scorse ore il bond subordinato del Monte da 750 milioni con scadenza nel 2028 rendeva oltre il 311%, affossato dalle vendite che ne hanno abbattuto il prezzo a 47,53. La fuga è scattata perché il titolo sarebbe azzerato dal “burden sharing” se il Monte, senza l’aumento di capitale, dovesse essere nuovamente messo in sicurezza con denaro pubblico. Esattamente come accadde ad altri bond di Mps “bruciati” nella precedente ricapitalizzazione precauzionale.
Mentre le banche del consorzio di garanzia del collocamento azionario suggeriscono al Monte di rinviare l’operazione, l’ad Lovaglio invece sinora ne ha confermato la partenza lunedì prossimo, 17 ottobre, per chiudere il 12 novembre. La fretta, secondo alcuni, sarebbe motivata dalla volontà di mettere di fronte al fatto compiuto il nuovo governo Meloni, per evitare che sotto la spinta “sovranista” il futuro ministro del Tesoro possa riaprire la discussione sulle prospettive di Mps con Bruxelles e Francoforte. È partito così il pressing del Tesoro sugli operatori istituzionali nazionali, addirittura le casse di previdenza, sperando che la moral suasion del governo li induca a farsi Cirenei della croce senese: anche questo è un film già visto a dicembre 2016, quando il finale non fu affatto quello desiderato a Palazzo Chigi. Il rischio che il cavallo del mercato non abbia alcuna intenzione di bersi le azioni senesi aumenta i timori degli istituti del consorzio di garanzia, sui cui conti ricadrebbe la cui quota “inoptata”, molto riluttanti (eufemismo) a bruciare soldi sulla pira senese.
La domanda irrisolta resta la stessa: perché nessuno vuole comprarsi la banca di Siena? Cosa vide UniCredit nei conti del Monte per convincerla mesi fa a mollare Mps a un metro dall’altare delle nozze? Mps è un caso di cecità del mercato rispetto al valore della banca o dei suoi controllori, Bankitalia e Tesoro? Quante volte ancora il mantra “la crisi bancaria nazionale non esiste” dovrà essere pagato dai risparmiatori e contribuenti italiani per non macchiare i ritratti dei governatori Mario Draghi e Ignazio Visco e dei ministri Pier Carlo Padoan, Giovanni Tria, Roberto Gualtieri e Daniele Franco?