La Stampa, 10 ottobre 2022
La battaglia dei chip
Mentre il presidente statunitense Joe Biden benediceva gli investimenti nel campo dei semiconduttori delle società Micron e Ibm nel corso di una due giorni fra Manhattan e New Jersey – 100 miliardi di dollari spalmati su alcuni decenni la prima nella zona di Syracuse, upstate New York, 20 miliardi per un impianto nella valle dell’Hudson la seconda – il consigliere per la politica economica Usa, Brian Deese parlava di «rinascita per la manifattura americana». A fare da traino il Chips and Science Act firmato in agosto che stanzia 52 miliardi per le aziende Usa che investono in ricerca, produzione e distribuzione dei chip di ultima generazione.
Secondo le stime della Casa Bianca ogni miliardo messo sul mercato fra incentivi, sussidi, sgravi fiscali ha finora prodotto investimenti privati per oltre tre miliardi e portato molte aziende a riconsiderare la loro presenza negli Stati Uniti. Qualcomm e Global Foundries hanno annunciato una partnership per espandere il sito di produzione nello stato di New York, Intel farà una fabbrica da 20 miliardi di dollari in Ohio, Samsung investe in Texas 17 miliardi.
I nuovi impianti avranno un effetto positivo sull’occupazione in termini di centinaia di migliaia di posti di lavoro legati a indotto e assunzioni di dipendenti qualificati con salari sopra la media, ma c’è una questione strategica e di sicurezza nazionale che travalica i confini Usa e la Casa Bianca ha in mente: benvenuti nel braccio di ferro tecnologico con Pechino.
Sin dal suo insediamento nel gennaio del 2021, Biden aveva ereditato da Trump una policy di contenimento commerciale verso Pechino; il leader democratico l’ha rimodulata solo nel linguaggio non nei contenuti. I dazi su 325 miliardi di dollari sull’import cinese rimasti, così come le porte chiuse a Huawei sono i casi più controversi.
Il fuoco dell’agenda Biden è a lungo termine. Il presidente vuole dotare l’America di un’industria di prim’ordine nel campo dei semiconduttori avanzati riconoscendo che Washington negli ultimi decenni ha lasciato il campo all’espansione delle tigri asiatiche.
Nel momento di massima espansione negli anni ’60 con la corsa alla Luna, il budget federale stanziava il 2% per la ricerca e lo sviluppo. Nel 2020, quella cifra era inferiore all’1%. Il riflesso si vede nell’industria hi-tech. Attualmente gli Stati Uniti producono il 12% dei microchip globali, quando 30 anni fa la sua quota toccava il 37% e negli anni Settanta sull’onda dei primi vagiti della rivoluzione tecnologica della Silicon Valley il 50%. Oggi il 75% delle imprese che assemblano i chip (da quelli nano, a quelli meno evoluti per le schede di memoria), sono in Estremo Oriente. E la Cina sta investendo per raggiungere il 40% di quel mercato.
È questo lo scenario che Washington vuole evitare si concretizzi e per limitare l’influenza di Pechino su un mercato globale e vitale ad ogni latitudine combatte su un doppio binario: il primo è quello di incentivare l’industria domestica e il Chips Act è lo strumento introdotto grazie a un sostegno bipartisan, rarità di questi tempi nella polarizzata America; il secondo è frenare la corsa di Pechino. Venerdì Biden ha messo la firma su un provvedimento che pone vincoli e restrizioni all’export di materiale hi-tech sensibile a industrie cinesi. È un provvedimento complesso che consente alcune esenzioni – la Samsung, per esempio, potrà ancora muoversi in quel business – ma nella lista americana ci sono 31 società alle quali non potranno giungere componenti, pezzi e il know-how americano. L’obiettivo è quello di fermare l’orologio dello sviluppo tecnologico di Pechino essenzialmente negandogli la possibilità di avere chip avanzati da applicare nello sviluppo dell’Intelligenza artificiale e limitare i miglioramenti dell’industria militare. Thea Rozman Kendler, assistente segretario del Dipartimento del Commercio Usa, ha detto che lo scopo «è privare alla Cina le risorse per costruire i supercomputer utili nei processi di intelligenza artificiale».
Era dagli anni ’90 che non c’era una così netta inversione di tendenza nei rapporti con Pechino dal punto di vista del trasferimento di tecnologia. Come ha sottolineato Jim Lewis del Center for Strategic and International Studies (Csis), questo «riporterà indietro negli anni la Cina».
Pechino non rinuncerà alle ambizioni, né la sua industria starà a guardare. Ieri una portavoce del ministero degli Esteri, Mao Ning, ha detto che la mossa Usa «danneggia gli stessi interessi americani e colpisce la supply chain e l’industria globale». Considerazioni che poggiano sui numeri e sull’andamento di vendite e azioni. Nvidia e Amd, produttori di schede di memoria e già da un mese inibite al trasferimento di chip a Pechino hanno registrato già cali in Borsa e vendite scese, è il caso di Amd, del 60%. Un avvertimento per le altre società del comparto. L’associazione che raggruppa le società produttrici di semiconduttori (Sia), ha avvertito l’Amministrazione che la mossa è stata troppo aggressiva e ampia. La Sia sta analizzando i numeri delle perdite, per ora non diffusi. L’allarme è che la perdita dei partner commerciali in Cina potrebbe portare a una diminuzione degli investimenti (in America) e offrire ai competitori stranieri la possibilità di riempire il vuoto. Un terreno scivoloso questo. Fonti dell’Amministrazione hanno confermato a La Stampa che «questo è un rischio concreto, se altri Paesi non dovessero allinearsi alle posizioni americane». Si lavora, è quanto fa capire il funzionario, dietro le quinte per ampliare il fronte anti-Cina. La sfida sull’hi-tech con Pechino è al calcio d’inizio.