La Stampa, 10 ottobre 2022
Il Pantheon di Giorgia Meloni
L’album di famiglia di Giorgia Meloni dice dove potrebbe essere l’Italia tra qualche mese. Al centro di una nuova internazionale sovranista, con tutto il peso di un Paese fondatore dell’Ue e membro del G7.
La sfilata dei leader mondiali presenti sul palco di Vox a Madrid, o con un videomessaggio inviato per omaggiare i post-franchisti di Santiago Abascal, è una festa di reduci e di irriducibili. Di leader decaduti, incriminati, imprigionati, accusati di golpe, oppure in ascesa o ancora in sella al potere, che in nome di Dio, Patria e famiglia sognano la disfatta globale della sinistra, della cultura dei diritti liberali, della tutela delle diversità. La rivalsa nera, con gradazioni più o meno conservatrici, e dunque più o meno populiste, è il trionfo della volontà nazionalista. Meloni è la chiave, oggi, per aprire la porta che conduce al paradiso del sovranismo. Dopo Donald Trump nessun’altra democrazia occidentale aveva avuto una guida di questo colore. Meloni è a un passo da Palazzo Chigi, da dove gestirà il governo di destra di uno dei sette Paesi che compongono il club dei grandi, la porta di ingresso del Mediterraneo, il prezzo pregiato della collezione europea.
«L’Europa dei patrioti», la chiama Meloni. Ed è più di uno slogan: è un progetto, confermato dalla strategia che hanno in testa gli uomini di maggiore fiducia della leader, e dai testi di legge presentati da Fratelli d’Italia nel corso dell’ultima legislatura, proposte che prevedono la supremazia del diritto nazionale su quello comunitario. Meloni sa che per raggiungere questo obiettivo, per destrutturare e ristrutturare gli equilibri in Europa, dando più forza alle Nazioni (il termine che, assieme a Patria, preferisce a Stati e Paesi) e sottraendone a Bruxelles, deve saldare un’alleanza che sia numericamente valida. E vuole farlo in vista del 2024, quando le elezioni europee rappresenteranno l’occasione per ribaltare l’egemonia di popolari e socialisti.
È un dejà vu. Il laboratorio Italia aveva già ospitato un esperimento simile. Sullo slancio del governo gialloverde, nel voto per l’Europarlamento del 2019, Matteo Salvini volò fino al 34 per cento, ma poté poco perché non aveva alleati, e nel gruppo di appartenenza europeo – i populisti di estrema destra di Identità e Democrazia – non c’erano capi di Stato o di governo in grado di incidere sui rapporti di forza. Un errore che Meloni ha sempre tenuto a mente, sin dal giorno in cui ha deciso di far accasare Fdi tra i Conservatori, di cui lei è diventata leader, ben prima di salire al 26 per cento di consenso e di vincere le elezioni.
Bisogna scegliersi i giusti «compagni di viaggio», ha detto ieri. E allora andiamoli a vedere alcuni di questi compagni di viaggio, ospitati nel Pantheon degli ultranazionalisti spagnoli del muscoloso Abascal. C’è il polacco Mateusz Morawiecki, capo di un governo che è sotto processo in Europa per aver degradato lo stato di diritto, sulle libertà delle donne e della magistratura. Meloni lo cita nel suo breve intervento come modello di successo assieme al governo della Repubblica ceca. Non fa lo stesso con Viktor Orbàn, l’autocrate di Budapest che pure è presente nell’album di Vox, forse giocando sul fatto che il premier ungherese è stato, fino alla sua espulsione, esponente dei popolari europei. Trump non ha bisogno di presentazioni. L’ex presidente americano è stato ed è ancora il punto di riferimento della destra globale, in corsa per rivincere le primarie repubblicane. Nella prima fase della rivoluzione sovranista, quando arrivò alla Casa Bianca, il suo principale consigliere, Steve Bannon, venne in Italia a organizzare il quartier generale del populismo europeo. «Bannon sta creando una rete dei movimenti che condividono la difesa di valori come identità nazionale, famiglia e tradizione. Noi ne vogliamo essere parte». Sono parole di Meloni, datate 25 settembre del 2019. Tre anni prima del voto che l’ha incoronata. Bannon scelse Meloni come punto di riferimento italiano quando era poco sopra il 5%. Una scommessa che ha rivendicato alla viglia delle elezioni, definendo la presidente di Fdi la «Margaret Thatcher italiana».
Si vedrà se il governo la renderà una conservatrice alla Tatcher o se deraglierà più verso la figura di una caudilla sudamericana. Intanto il Movimento di Bannon è ancora in piedi. Acciaccato, magari, ma in vita. Per entrare di diritto nel club di Vox serve una provata ostilità verso i gay e la cultura Lgbt. Tra i promossi a pieni voti c’è una altro repubblicano Usa, Ted Cruz, antiabortista e teorico di un’immigrazione confessionale, secondo la quale gli Usa dovrebbero essere una terra promessa solo per i cristiani. L’ossessione etnica, razziale, religiosa e sessuofoba, assieme a un mix di armi facili e ricette ultraliberiste, è una costante tra gli amici della Patria e di Meloni. In Sudamerica ha il volto di Jeanine Áñez, ex conduttrice televisiva, presidente ad interim della Bolivia nei giorni dell’esilio forzato di Evo Morales: è stata arrestata con l’accusa di golpe e condannata lo scorso giugno a dieci anni di carcere. Considerata una nemica degli indios, entrò nel palazzo presidenziale agitando una Bibbia sopra la testa e urlando: «La Bibbia è tornata al governo». Andiamo avanti: nella galleria dei ritratti di Vox c’è anche Álvaro Uribe, presidente della Colombia dal 2002 al 2010. Teorico della repressione militare contro i guerriglieri delle Farc, è stato condannato per complicità nei massacri di Antioquia. La Dia, l’Antidroga americana, lo considerava un alleato dei narcotrafficanti del cartello di Medellìn e di Pablo Escobar. Infine c’è José Antonio Kast, nostalgico del Cile del dittatore Augusto Pinochet, condannato per crimini contro l’umanità. Con il suo Partito repubblicano (inutile dire a chi è ispirato), è arrivato al ballottaggio delle presidenziali del 2021 con queste proposte: armi libere per i cittadini, diritto di sparare ai ladri, religione a scuola, meno tasse ai ricchi, più libertà e meno uguaglianza. Dio, Patria e famiglia, come tutti gli altri. Ma la famiglia non si sceglie, gli amici sì.