Corriere della Sera, 9 ottobre 2022
Cosa sappiamo dell’attentato al ponte di Kerch
Il ponte di Kerch non è un target a sorpresa ma un obiettivo ampiamente annunciato dagli ucraini, che da tempo minacciavano di centrarlo con gli Himars. Tanto è vero che i russi avevano adottato contromisure antimissile (poi rimosse) perché temevano colpi. Alla fine è stato avvolto in una bolla di fuoco.
Mosca ha dato la «colpa» a un mezzo in arrivo dalla Russia che è esploso coinvolgendo poi il convoglio di cisterne sulla linea ferrata. È una teoria con derivate.
1) Un veicolo-trappola, l’autista inconsapevole. Magari aveva un carico d’armi a bordo e un infiltrato ha piazzato una carica poi attivata a distanza.
2) L’attentatore suicida, con il guidatore che si trasforma in kamikaze mentre ha all’interno tonnellate di fertilizzante. Un’azione resa possibile dalla mancanza di controlli: l’accesso al ponte è sorvegliato da un check-point con «macchine» scanner per le ispezioni. Le guardie non si sono accorte di nulla: svagate o corrotte per guardare dall’altra parte, pratica normale.
Chi non crede a questa ricostruzione sospetta un’operazione delle forze speciali ucraine, ormai protagoniste da tempo di incursioni in profondità. E, nelle ore successive, sono uscite indiscrezioni in questo senso, attribuendo il merito a un team dell’Sbu. Ammissione in seguito smentita. Gli «specialisti» hanno usato il camion come Cavallo di Troia o hanno piazzato ordigni in qualche modo? Sembra di rivivere il «misterioso» attacco alla base aerea di Saky, sempre in Crimea, ai primi d’agosto. Anche allora erano emerse tesi parallele, tutte plausibili: tiro di missili, commandos, deflagrazione accidentale, sabotatore interno. Ci sono osservatori che propendono per uno strike preciso, condotto con sistemi a lungo raggio. E non manca la pista di un barchino esplosivo radiocomandato mandato sotto il ponte, possibilità confutata da alcuni esperti e accarezzata da altri con particolari su battelli/droni simili a un modello rinvenuto sulla costa di Sebastopoli.
Ora è evidente che la teoria del camion fa comodo a tutti. Puoi fare passare l’evento per un gesto individuale, non sono state impiegate armi occidentali che implicherebbero una reazione di livello, non si mettono in imbarazzo gli Stati Uniti, può costruirci attorno mille castelli di carte dando modo alla Russia di scegliere l’opzione migliore e meno imbarazzante. Perché, quale che sia la causa della botta, lo sfregio al Cremlino resta. Le fiamme hanno avvolto un simbolo e hanno provato ancora una volta che il regime non è in grado di garantire la protezione di siti cruciali. Con il rischio di ripercussioni sulla rete logistica indispensabile nel conflitto. I danni hanno riguardato la sezione stradale e quella ferroviaria, da cui l’Armata dipende per portare materiale al fronte.
Lo schiaffo è ancora più pesante perché avviene in concomitanza con il compleanno di Vladimir Putin. Tutto questo mentre a Mosca crescono le divisioni tra gerarchi, ufficiali, capi mercenari, il ceceno Kadyrov, tutti impegnati a scaricare le responsabilità uno sull’altro. Lo confermano i ripetuti avvicendamenti, l’ultimo queste ore con la nomina del generale Sergei Surovikin a comandante delle truppe. Un clima velenoso che lascia spazio ai sospetti, alle voci incontrollabili, compresa quella che la deflagrazione sia una provocazione, parte della faida tra apparati del neo-zar. Era stato detto anche per l’omicidio della figlia di Dugin, poi è stata l’intelligence statunitense a indicare, in forma anonima, il colpevole: gli 007 ucraini. Confidenza consegnata al New York Times e interpretata come un avviso a Zelensky a frenare.
La storia, per certi aspetti, ricorda gli episodi in serie avvenuti in Iran, con «incidenti» e sabotaggi in luoghi strategici, fabbriche, basi. Alcuni sono chiaramente legati ad operazioni di servizi, di oppositori interni ingaggiati da nemici esterni (Israele, Usa, Arabia), altri restano avvolti dalla nebbia di guerra. Sono atti che possono essere rivendicati ma anche no, lasciando che siano gli altri a offrire una narrazione. E il balletto di versioni avvantaggia chi ha sferrato il fendente ma, nel contempo, permette a chi lo subisce di rispondere in un momento più opportuno.