Corriere della Sera, 9 ottobre 2022
Che fare con la Crimea?
Da qualche settimana Volodymyr Zelensky ripete che «la guerra è iniziata e finirà in Crimea». Una dichiarazione di intenti che sicuramente piace a un largo schieramento bipartisan nel Congresso, ma che semina dubbi nell’amministrazione di Joe Biden. Ieri il presidente americano non ha commentato l’attentato al ponte di Kerch che collega la Russia alla penisola ucraina che ha occupato nel 2014. Il governo Usa è stato colto ancora una volta di sorpresa? È interessante notare come, con il trascorrere delle ore, i consiglieri di Zelensky abbiano cambiato atteggiamento. Sono passati dall’esultanza, simile a quella che abbiamo visto quando ad aprile fu affondata la nave ammiraglia Moskva, alla prudenza, fino a negare ogni coinvolgimento nell’attacco.
Non abbiamo elementi concreti per mettere in relazione il silenzio della Casa Bianca e le affannose correzioni di Kiev. È un dato di fatto, però, che il ponte di Kerch sia proprio al limite del perimetro bellico tracciato a Washington. Da aprile in poi il Pentagono e la Cia continuano a raccomandare di non colpire obiettivi in territorio russo. Putin, sempre più in difficoltà, potrebbe rispondere con armi nucleari tattiche, cambiando in maniera drammatica il corso del conflitto. Biden lo ha ripetuto giovedì 6 ottobre, in una raccolta fondi per i senatori democratici a New York, evocando «l’Armageddon», l’Apocalisse atomica. Certo, i portavoce della Casa Bianca si sono affrettati a precisare che «non ci sono informazioni nuove che indichino preparativi nel campo russo». Tuttavia nessuno ha escluso, né poteva farlo, lo scenario nucleare.
Nello stesso tempo va registrato come non ci sia alcun ripensamento nel sostegno americano all’Ucraina. Martedì 4 ottobre Biden e la vice presidente Kamala Harris si sono sentiti a lungo per telefono con Zelensky e gli hanno promesso l’invio di un’altra fornitura di armi, per un valore di 625 milioni di dollari. Le cifre sono eloquenti. Dall’inizio del conflitto gli Usa hanno stanziato 16,8 miliardi di dollari per l’Ucraina, cioè oltre un terzo degli aiuti militari totali che in anni normali gli americani distribuiscono tra decine di Paesi alleati.
La strategia, che ha consentito di respingere l’attacco di Putin, si basa ancora sui due assunti fissati nel febbraio scorso. Primo: gli Stati Uniti e la Nato non devono essere coinvolti nel conflitto. Secondo: tocca a Zelensky decidere se e quando negoziare. I media americani hanno rivelato l’irritazione della Casa Bianca per qualche «eccesso» ucraino, come l’ipotesi che ci fossero i servizi di Kiev dietro l’omicidio a Mosca di Darya Dugina, figlia dell’ultra nazionalista Alexander Dugin; oppure la richiesta agli alleati occidentali di bombardare «preventivamente» le basi missilistiche russe, poi smentita da Zelensky.
Ma la distruzione parziale del ponte di Kerch ripropone la domanda di fondo, che a Washington puntualmente riemerge nei momenti di massima tensione come questo: fino a che punto si può spingere la controffensiva ucraina? È un dilemma che l’amministrazione non ha risolto. C’è chi sostiene, specie nel dipartimento di Stato, che gli ucraini abbiano il diritto di colpire tutte le infrastrutture usate dai russi per rifornire l’armata di occupazione. L’altro problema è proprio la Crimea. Finora le diplomazie americana ed europea, nei colloqui informali, davano per scontato che un accordo di pace non avrebbe toccato, almeno per un certo periodo, lo status della penisola. La comunità internazionale non ha mai riconosciuto la validità del referendum che nel 2014 sancì l’annessione della Crimea da parte della Federazione russa. Ma nessuno, all’inizio neanche Zelensky, ha mai ipotizzato il ritorno del territorio nelle mani ucraine.