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 2022  ottobre 07 Venerdì calendario

Intervista a John Medina - su "Il cervello al lavoro. Istruzioni per pensare meglio in ufficio e a casa" (Bollati Boringhieri)

La rivoluzione dello smart working si è impantanata: cresce l’insoddisfazione - e con essa il fenomeno del quiet quitting (letteralmente abbandono silenzioso) ovvero il lavorare giusto il minimo indispensabile per non essere licenziati - e i conflitti tra dipendenti e gerarchie aziendali. L’ultimo report Microsoft sul lavoro ibrido mostra che se l’87 per cento degli impiegati dichiara di essere produttivo, solo il 12 per cento dei capi lo riconosce. Mentre la società e la politica si interrogano, un aiuto può venire dalla scienza. Il biologo molecolare John Medina, specializzato nello sviluppo del cervello e docente alla University of Washington School of Medicine, pubblica un libro di consigli - basati su studi in peer review (revisione paritaria) ovvero lo standard più alto di credibilità - per migliorare in tutti i sensi il lavoro. Il cervello al lavoro (Bollati Boringhieri) segue Naturalmente intelligenti e Il cervello non ha età. Tradotti in 34 lingue, i libri di Medina, piacevoli anche grazie al suo stile ironico, hanno venduto oltre 800 mila copie nel mondo e sono usati come libri di testo in un centinaio di università americane.

Come nasce la sua fortunata serie di saggi?
"Dal desiderio di sfatare alcuni miti. Anni fa mi trovavo su un volo per Seattle. Sul sedile a fianco c’era una rivista con un articolo che diceva: "Oggi con le neuroscienze si può capire per chi votano gli americani". Già mi sembrava assurdo, ma lessi tutto e trovai un mito dopo l’altro. Tipo il fatto che usiamo solo il 10 per cento del nostro cervello. Non era scienza, quella, e - essendo l’aereo vuoto, era un volo notturno - gettai per il disappunto la rivista lungo il corridoio. Mia moglie mi disse: "Invece di pavoneggiarti nella tua torre d’avorio, perché non scrivi un libro divulgativo su ciò che la scienza dice davvero su come funziona la nostra mente?". Ho seguito il suo consiglio".

In questi ultimi anni il lavoro, anche per effetto della pandemia, è cambiato. Con quali effetti?
"Un problema che è emerso è la cosiddetta "fatica da Zoom": le videoconferenze sono estenuanti per diversi motivi. Il primo è che è più difficile "leggere" gli altri ed entrare in sintonia perché, rispetto a una riunione in presenza, ci perdiamo gran parte del loro linguaggio del corpo. Poi Zoom stravolge i tempi naturali dello sguardo. Studi mostrano che se, una volta che iniziamo a parlare con qualcuno, costui distoglie lo sguardo prima di uno-due secondi, pensiamo che ci stia ignorando. E se invece l’altro ci fissa per più di tre secondi, iniziamo a provare disagio. Ebbene, su Zoom le persone si fissano per molti minuti, aumentando lo stress, oppure possono distogliere lo sguardo - ad esempio per guardare lo schermo invece della webcam - pur rimanendo attenti a ciò che diciamo. Insomma saltano i normali codici del dialogo vis-a-vis e ciò risulta stressante. E poi c’è anche l’effetto "faccione"..."

Di cosa si tratta?  
"Molti usano Zoom con la faccia dell’interlocutore a pieno schermo. Gli unici momenti in cui percepivamo un volto così grande, per il 99 per cento della nostra esistenza come Homo sapiens, erano quelli di stretto contatto fisico: lotta per la vita o rapporto sessuale. Su Zoom durante le riunioni aziendali, ovviamente, non siamo in nessuna delle due situazioni, ma il cervello deve costantemente ricordarselo e disinnescare la tensione emotiva suggerita da quella illusoria vicinanza fisica. Questo lavoro di continua correzione delle impressioni causa stress. Qualche soluzione: alternare le conferenze video con altre in solo audio, o con telefonate. Assicurarsi che solo chi sta parlando abbia la telecamera attiva. E non estendere a tutto schermo la finestra di Zoom (o Teams o Skype...)".

E l’ufficio domestico? La scienza ci dice come organizzarlo per favorire la produttività e ridurre lo stress?
"Un trucco immediato - che vale anche per l’ufficio - è avere intorno a noi più verde. L’esposizione alla natura (che si tratti di piante nella stanza, o finestre che danno su prati e colline, o anche solo di poster con alberi e ruscelli) può aumentare fino al 50 per cento le capacità di risolvere problemi, come mostrano gli studi del neuroscienziato David Strayer".

Quindi il contesto ha un suo ruolo...
"Siamo come delle spugne: ci adattiamo ad ogni situazione assorbendo, anche a livello subconscio, indizi e stimoli dal contesto in cui ci troviamo. Quando si tratta di ricordare qualcosa, per esempio, più replichiamo le condizioni del momento in cui l’abbiamo imparata, più facile sarà recuperarla dalla memoria. Per questo motivo conviene studiare, se possibile, nella stessa aula dove si darà un esame, o prepararsi per una presentazione aziendale nella stessa sala riunioni dove la illustreremo ai capi. Gli smart worker dovrebbero, per lo stesso motivo, separare in modo netto, in casa, l’area "lavoro" dall’area "riposo ". Chi lavora nella stessa stanza in cui dorme infatti manda al cervello segnali conflittuali che facilitano il burnout: lavora peggio e dorme peggio. Studi mostrano che una tecnica efficace contro l’insonnia è dedicare una stanza al sonno e a nessun altro uso. Così il cervello, quando siamo in quella stanza, riconosce lo spazio e dice a se stesso: "Questo è il luogo dove di solito dormo, quindi mi verrà sonno"".

Il maggiore fattore di stress in ufficio in genere sono  le discussioni con capi e colleghi. C’è un modo per tenerle sotto controllo?
"Il vero problema è quando il dissidio non è più sulle idee o sui modi di agire, ma proprio sulle persone. I conflitti relazionali suscitano emozioni come malcontento, sfiducia, rabbia e paura perché attivano i nostri circuiti di sopravvivenza. Ossia la controparte viene interpretata dal cervello come una minaccia. Proprio perché si tratta di meccanismi cerebrali antichissimi e predisposti a gestire le emergenze, durante uno screzio si attivano simultaneamente due vie neurali: una più veloce (che coinvolge l’amigdala, il centro cerebrale che valuta se c’è realmente un pericolo e nel caso mette il cervello in stato di allarme) e una più lenta, che recluta strutture corticali prefrontali - ovvero quelle preposte alla razionalità - e revisiona il giudizio dell’amigdala, valutando se l’allarme sia giustificato. Naturalmente i conflitti con capi e colleghi sono diversi dalle lotte preistoriche con i predatori o le tribù nemiche, però tutta questa attività neuronale che si avvia in automatico consuma energia e ne lascia poca per svolgere il lavoro. Non solo: queste emozioni spiacevoli ci portano alla "ruminazione", all’intrappolamento in pensieri negativi che continuano anche a casa".

Come possiamo riacquistare serenità, in questi casi?
"Gli studi degli psicologi comportamentisti James Pennebaker e Ethan Kross suggeriscono una strategia che si è rivelata molto efficace: riconsiderare i dissidi con gli altri estraniandoci da noi stessi. Per questo ci servirà carta e penna: scrivere di esperienze che ci infastidiscono fa sì che dopo un po’ queste non ci infastidiscano più. Più precisamente: nei quattro giorni seguenti allo screzio dovremmo ritagliarci venti minuti al giorno per scrivere e riscrivere ciò che è successo durante l’episodio, assumendo la prospettiva di una terza persona che ha osservato il conflitto. In questa riscrittura dell’esperienza è importante specificare i nostri motivi e anche i possibili motivi, fini e desideri del nostro avversario. In questo modo si disinnescano le emozioni negative e quando incontreremo di nuovo quella persona, saremo meno carichi emotivamente e più disposti a capire e collaborare".