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 2022  ottobre 09 Domenica calendario

Intervista a Catherine Dunne - su "Una buona madre" (Guanda)

«Continuavo a pensare a quell’esercito segreto di donne. Tutte loro — tutte noi — in tutta l’Irlanda. Madri di bambini perduti». La voce è di Eileen, una delle protagoniste del nuovo romanzo di Catherine Dunne, in uscita in italiano martedì 11 da Guanda, prima ancora che nell’originale inglese. Una buona madre è il titolo del libro, una storia corale che attraversa più generazioni dalla metà del Novecento agli anni del Covid. Forti i temi, avvolgente la costruzione, che alterna epoche e punti di vista, seguendo molteplici fili narrativi destinati a intrecciarsi. «Sono una buona madre? Questa domanda — osserva la scrittrice — credo se la pongano tutte le donne con figli, sulle quali pesa tutt’oggi una pressione sociale maggiore rispetto ai padri. Ho voluto esplorare la questione, anche alla luce del passato dell’Irlanda».

Uno dei nuclei principali del romanzo attinge a una ferita gravissima e ancora aperta nel Paese: la reclusione dal 1922 al 1998 di circa 56 mila donne nelle cosiddette Mother and baby homes, istituti per lo più gestiti dalla Chiesa di concerto con lo Stato e destinati alle ragazze madri e ai loro bambini. Qui le donne, accusate di essere «peccatrici», subivano condizioni di dura detenzione, erano sottoposte a lavori forzati, spesso costrette a cambiare nome. I figli venivano dati in adozione senza consenso né documenti, venduti all’estero o usati come cavie di esperimenti medici. Una vicenda drammatica su cui è calato un lungo silenzio. Ha acceso l’attenzione nel 2013 il film di Stephen Frears Philomena, con Judi Dench. Mentre nel romanzo Small Things Like These (Faber & Faber), finalista al Booker Prize 2022, la scrittrice irlandese Claire Keegan affronta gli orrori delle Magdalene Laundries (Lavanderie della Maddalena): strutture simili alle Homes ma destinate più in generale alle donne «immorali», lì rinchiuse e impegnate in modo estenuante in lavori come appunto il bucato a mano. E sempre sulle Laundries era incentrato il film Magdalene di Peter Mullan, Leone d’oro a Venezia nel 2002.

Catherine Dunne discute del libro con «la Lettura». Collegata via Zoom, si muove tra i crimini di ieri e «il fatto che oggi stiamo tornando indietro sui diritti delle donne» (nel romanzo è affrontato anche il delicato tema di come sono trattate le vittime di stupro). L’autrice parla poi di pandemia e guerra, lutti collettivi e personali, a partire dalla perdita, venticinque anni fa, di suo figlio Eoin: «È importante capire che cosa ci fa il dolore».

Perché si è concentrata sugli istituti per ragazze madri e i loro bambini?

«L’Irlanda è un posto di silenzi. E quello sulle Mother and baby homes, parte di un più ampio sistema di controllo, ha impiegato molto tempo a essere spezzato. La vera svolta nella coscienza pubblica è avvenuta nel 2017, quando nell’ex istituto di Tuam, nella contea di Galway, sono stati scoperti i cadaveri di circa ottocento neonati in una cisterna sotterranea. Il governo irlandese nel 2021 ha reso pubblici i risultati di un’apposita Commissione d’inchiesta, ma le testimonianze delle sopravvissute sono state sminuite o escluse dal report. Quindi è come se quelle donne fossero state messe di nuovo a tacere. Di recente è intervenuta anche l’Onu, sottolineando un altro aspetto: il razzismo sistemico in quelle strutture, rispetto al quale la risposta del nostro esecutivo non è apparsa sufficiente. Spesso ad esempio i bambini di origine mista divennero le cavie prescelte per i vaccini contro la poliomielite. A tutto questo, io ho cercato di reagire con la scrittura».

In che modo?

«Ogni dettaglio del romanzo, incluso quello di un bambino strappato alla madre mentre lo stava allattando, è tratto dai racconti delle testimoni. Nel 1997 persi il mio secondo figlio, Eoin, morto subito dopo la nascita, e ancora oggi penso a lui ogni giorno. Persino su un evento di questo tipo era solito scendere il silenzio, ma io ne parlai, ne scrissi, e mi aiutò. Ora quel dolore indicibile è come se si fosse integrato in me, ed è il modo in cui mi sento guarita. Aprirsi, leggere, capire la perdita fanno parte del modo in cui ci riprendiamo. Ma se penso alle donne delle Mother and baby homes, l’idea che un figlio sia là fuori e tu non sappia dove, credo sia insuperabile. È come essere mutilate. Ecco perché la storia di queste ragazze mi ha colpito in tutti i modi possibili, e mi ha spinto a pensare anche ad altre madri che in questo Paese hanno sofferto».

Le fa vivere attraverso le sue protagoniste. Betty ad esempio negli anni Sessanta, incinta prima del matrimonio, fugge a Londra.

«Se te lo potevi permettere, avevi un po’ d’istruzione e fortuna, era una via d’uscita. L’Irlanda esportava in un certo senso il “problema”, così come ha fatto fino a tempi molto recenti con l’aborto (legale nel Paese dal 2019, ndr)».

La possibilità di abortire è tornata al centro del dibattito e ha subito limitazioni in diversi Paesi, legislative o di fatto.

«Quello che sta accadendo è orribile, ho paura per le donne. Non riuscivo a crederci quando, lo scorso giugno, la Corte Suprema degli Stati Uniti ha rovesciato la sentenza Roe contro Wade (pronunciamento che nel 1973 garantì l’interruzione di gravidanza a livello federale, ndr). Qui in Irlanda la legge ha molte limitazioni e si scontra con la diffusa obiezione di coscienza, ma dovremo essere vigili che non venga persino cancellata. Un paio di settimane fa c’è stata una grande manifestazione a Dublino contro il diritto all’aborto. E poi ci sono l’Ungheria, la Polonia, l’ascesa dell’estrema destra ovunque, anche in Italia. Abbiamo già visto in passato come all’improvviso le cose possano cambiare e le libertà venire sospese. Viviamo un’epoca pericolosa».

I diritti sono stati dati per scontati?

«Se cresci in un contesto in cui sono garantiti, in cui rappresentano l’architettura in cui ti muovi, tendi a pensare siano acquisiti per sempre. Ma non è così. Vale anche in altri ambiti. Se vivi in tempi stabili, credi che lo resteranno. E invece ecco l’elezione di Donald Trump, la Brexit con tutti i danni che ne sono venuti. E ancora: chi pensava che la Russia avrebbe davvero invaso l’Ucraina? Siamo nell’età dell’incertezza. È spaventoso, e in questo scenario prospera la destra estrema».

Perché?

«Ai suoi leader piace dare certezze: “No agli immigrati”, “No all’aborto, puntiamo sulla famiglia, Dio, il nostro Paese”. E se i cittadini sono spaventati, arrabbiati, poveri, certe risposte sono rassicuranti. La verità però è che gli esseri umani e il mondo sono più complessi. A ciò si aggiunge che i partiti di sinistra sono divisi, senza una visione comune. Non è più neppure sicuro che la stessa Ue, in cui credo, così importante per l’Irlanda, con la guerra e la crisi energetica riesca a mantenersi unita. È una fase difficile, in cui anche il giornalismo sarà importante: serve dire la verità al potere, più lo farà, più sopravviveremo».

Nel romanzo lei affronta il tema di uno stupro e del trattamento riservato alle donne che denunciano.

«Una delle mie protagoniste, la giovane Amy, subisce una violenza, ma dice alla nonna: “Hai idea di cosa succederebbe se comparissi davanti a una giuria? Le domande a cui dovrei rispondere? Trascinerebbero tutta la mia vita nel fango (...). Hai dimenticato Belfast?”. Il riferimento è a una vicenda precisa. Nel 2018 nella città dell’Irlanda del Nord si è svolto il processo contro due famosi giocatori di rugby imputati per stupro. Il verdetto di assoluzione è stato terribile, ma lo è stata altrettanto la condizione cui è stata sottoposta l’accusatrice davanti alla giuria: il mio cuore sanguinava per lei. E questo succede in molti altri tribunali».

Luke, il ragazzo accusato nel libro, non va a processo. Sua madre e la nonna di Amy si parlano, forse i due giovani si incontreranno. Teme critiche per un’eccessiva indulgenza?

«Come scrittrice desidero che i lettori siano catturati dalla storia, ma soprattutto che l’esperienza di vita che propongo sia autentica e veritiera. In questo caso, i dati mostrano la tragica realtà di tante donne che non denunciano, per gli stessi motivi che atterriscono la mia protagonista. Inoltre, sua nonna e la madre di Luke s’incontrano sì perché sono già legate nella trama, ma anche perché lo ritengo credibile. Sono semplicemente due donne che, in una situazione terribile, provano a cercare comunque il meglio per chi amano, incluso il tentativo di un atto riparativo. La conclusione inoltre resta aperta, non c’è un lieto fine».

Nell’ultima parte irrompe il Covid.

«L’emergenza coronavirus era il contesto in cui io stessa mi trovavo quando sono arrivata all’ultima bozza: sola in casa, con queste donne nella testa ventiquattr’ore su ventiquattro. È stato naturale inserire quell’esperienza nella trama, e spero sia utile. Ci vorrà tempo per capire cosa ci ha davvero fatto la pandemia, a vari livelli: ansia, perdita, isolamento... Non l’abbiamo ancora elaborata in modo profondo, siamo in una fase di transizione. E anche questo contribuisce all’età dell’incertezza in cui ci troviamo».