La Lettura, 9 ottobre 2022
Su "L’isola dei battiti del cuore" di Laura Imai Messina (Piemme)
Ci è riuscita, di nuovo. Ha trovato un posto magico, che a sentirne parlare si immagina una favola e invece esiste davvero. Lo ha scovato, ancora una volta, in un angolo remoto di Giappone, perfetto per una storia universale. Un punto nel mondo dove si ascolta e non si parla. Dove è possibile tenere vivo il ricordo di chi non c’è più. O, semplicemente, sentire l’umanità più vicina. Laura Imai Messina è stata a Teshima, isola nel Mare Interno del Giappone, sud-ovest del Paese. Per raggiungerla ha preso un aereo da Tokyo, poi una nave, un autobus, infine ha camminato lungo un sentiero, tenendosi sulla sinistra il blu delle onde. È arrivata infine a Shinzo-on no Akaibu, l’Archivio dei Battiti del Cuore, museo in cui sono catalogate le pulsazioni di decine di migliaia di persone. Ha sentito il rimbombo dei cuori — alcuni vivi, altri non più — quando era ancora fuori dall’edificio che li ospita. E ne ha fatto un romanzo. L’isola dei battiti del cuore (Piemme).
Percorsi di rinascita. Alla ricerca di nuovi equilibri interiori, perché «per essere felici serve innanzitutto immaginare di essere felici». E allora, dopo avere svelato nel 2020 l’esistenza del Telefono del Vento (nella prefettura di Iwate), dove chi vuole può alzare la cornetta di un vecchio apparecchio scollegato per parlare con chi non c’è più (il libro, Quel che affidiamo al vento, edito da Piemme, è stato un caso letterario, in corso di traduzione in 25 Paesi; i diritti cinematografici sono stati opzionati da Cattleya), l’autrice questa volta ha costruito una storia intorno allo speciale museo giapponese creato dall’artista francese Christian Boltanski (1944-2021), che a partire dal 2008 cominciò a collezionare battiti del cuore negli Archives du Cœur. A Teshima erano 35 mila nel 2015, 75 mila nel 2021, ora sono circa 80 mila. Oltre a quelli (fittizi) dei protagonisti del romanzo. Eccoli.
Shuichi, quarantenne di successo, illustratore di libri, torna nella cittadina in cui è cresciuto. Sua mamma è appena morta, spetta a lui sistemare la dimora di famiglia, rinnovarla per metterla in vendita o affittarla. L’uomo, che ha memorie confuse (la madre per proteggerlo gli dava versioni migliori dei suoi dolori di bambino: «Il terremoto? Te lo sei immaginato. La caduta? L’hai sognata»), ha una ferita in mezzo al petto — si ausculta ogni giorno il cuore — e una profondissima nell’animo. Ma la sua vita prende una strada inaspettata, fortunata, quando scopre che in casa entra un piccolo intruso, Kenta, ragazzino solitario e tremendamente sensibile: «Avere otto anni era una maledetta fatica, la scuola, i compiti, i coetanei con quella memoria straordinaria per gli sbagli altrui...». Tra il disegnatore-surfista e il bambino nasce un’amicizia speciale, che li porta ad aprire il cuore piano piano, a mettersi a nudo, a rivelare un passato fatto di drammi personali. A cercare insieme la felicità perduta. Fino ad arrivare, insieme, a Teshima, dove l’aria pulsa.
La Stanza del Cuore è buia. Qui risuona il battito di uno sconosciuto, una donna, un uomo, un anziano, un bambino. È così che ha inizio il percorso all’interno dell’Archivio. Poi tocca alla Stanza dell’Ascolto, dove sentire in cuffia, a scelta, i battiti conservati nel museo. «Non esiste una regola. Potete cercare qualcuno che abbia il vostro stesso cognome, oppure ascoltare le pulsazioni di qualcuno che abita in una città che avete visitato». Infine la Stanza di Registrazione, dove incidere il suono del proprio cuore e, volendo, lasciare un messaggio. «Un cuore tedesco, un cuore svizzero, un cuore cinese, un cuore coreano. Ci affatichiamo a farci diversi tutta la vita, ma poi restiamo identici al piano originario». L’incontro diventa viaggio, la memoria condivisione in un romanzo che si popola di vivi e morti, come il figlio di Shuichi, scomparso in un tragico incidente.
Imai Messina intreccia fili. Di luoghi e persone. Lega i personaggi dei suoi libri precedenti a quelli del nuovo romanzo: il dottor Fujita di Quel che affidiamo al vento è il cardiologo di Shuichi; Aoi di Le vite nascoste dei colori (Einaudi, 2021) è il fratello di Sayaka, che diventerà fondamentale per Shuichi e Kenta. Tesse narrazione e reportage. Suspense e love story (sì, c’è anche quella). Ritmo e introspezione, cronaca e poesia. E poi — è un suo tratto distintivo — usa le parole del mondo per entrare nel profondo delle sue storie. Come quando fa pronunciare a Shuichi i suoni del battito cardiaco in afrikaans (doef doef), in albanese (pam-pam, bam-bam), in bulgaro (tup tup), in russo (tuk-tuk), in spagnolo (bum bum bum, tucutún tucutún). E, ovviamente, in giapponese: doki doki «quando siamo emozionati», toku toku «quando il battito è calmo», doku doku «quando il suono si fa forte e il cuore teso».
Un pesce-bambino, i colori delle stagioni, l’origine degli ideogrammi. Malinconico, potente, profondo, L’isola dei battiti del cuore conferma il percorso della scrittrice nata a Roma nel 1981 che vive in Giappone dal 2006: raccontare l’animo umano con uno sguardo «orientale». Pudico e mai superficiale. Delicato eppure travolgente. Attento alle piccole cose e ai piccoli passi che possono migliorare l’esistenza. Alla ricerca di tutto quanto significhi Wa, la via giapponese all’armonia (come il libro scritto per Vallardi nel 2018). Soprattutto, il romanzo è un viaggio intorno al valore della memoria, alla necessità del ricordo.
All’ingresso dell’Archivio, a Teshima, c’è una frase di Boltanski che pochi notano (ma Imai Messina sì): «Durante tutta la mia vita non ho smesso di accumulare prove per impedire alle cose di sparire, e alla fine non ho fatto altro che rinforzare la loro sparizione, accentuare la visione di questa perdita».