Corriere della Sera, 9 ottobre 2022
Paragone tra la crisi attuale e quella del 1962
l presidente americano aveva poco meno di vent’anni nell’autunno 1962 e ricorda molto bene la crisi dei missili a Cuba, quando Stati Uniti e Unione Sovietica danzarono sull’orlo dell’abisso nucleare, prima di fermarsi evitando un disastro che avrebbe ucciso milioni di americani e di russi.
Vi ha fatto riferimento due volte, il capo della Casa Bianca, nella conversazione informale avuta giovedì scorso con i sostenitori del partito democratico, nell’appartamento newyorkese di James Murdoch, figlio progressista del mogul conservatore Rupert. Biden ha evocato «la prospettiva dell’Armageddon», l’apocalisse nucleare, nel caso in cui Vladimir Putin, costretto in un angolo come il topo della sua infanzia a San Pietroburgo, reagisse usando una bomba atomica di potenza limitata in Ucraina. Ma soprattutto ha anche mandato un messaggio neppure tanto in codice, che è poi la lezione cruciale della crisi cubana: l’America e i suoi alleati dovrebbero evitare di mettere Putin con le spalle al muro e a tal fine Washington sta cercando di individuare una «off-ramp», una via d’uscita in grado di scongiurare il peggio. «Qual è la posizione che gli permetterà di non perdere non solo la faccia, ma neppure il potere?», si è chiesto Biden senza avere al momento una risposta. Che poi l’uomo di Mosca colga la finestra di opportunità per avviare una «de-escalation» o se sia veramente interessato a trovare una way out, è un’altra storia, visto che finora ad ogni punto critico ha sempre alzato il livello della tensione.
Ma cosa successe esattamente 60 anni fa, nei tredici giorni che scandirono la crisi di Cuba? La risposta può essere riassunta in due parole: diplomazia segreta. Mentre la loro retorica pubblica saliva di tono – «Dipende da lei se vogliamo incontrarci tutti all’inferno», disse a un certo punto Nikita Krusciov a John Kennedy – in realtà i leader delle due Superpotenze mantennero sempre un canale sotterraneo di comunicazione, gestito dal ministro della Giustizia e fratello del presidente americano, Bob, e dall’ambasciatore dell’URSS a Washington, Anatoly Dobrynin. E quando il compromesso fu raggiunto, con il ritiro dei missili sovietici da Cuba in cambio del discreto smantellamento di quelli a medio raggio degli USA in Turchia, i termini veri vennero tenuti segreti per molti anni.
Attenzione però. Come ha spiegato Michael Dobbs, storico e giornalista, forse il maggior esperto della crisi cubana, il pericolo più grande durante i «thirteen days» non venne tanto dal confronto tra Krusciov e Kennedy a chi batteva le ciglia per primo, quanto dall’impossibilità di controllare tutti gli eventi che avevano scatenato. Detto altrimenti, dal rischio di un incidente, un errore, una provocazione. Un esempio per tutti, Krusciov non aveva mai autorizzato l’abbattimento con un missile sovietico di un aereo spia americano U-2 che volava sopra Cuba, avvenuto il 27 ottobre 1962. «C’è sempre un figlio di puttana che non capisce l’ordine», avrebbe detto Kennedy a crisi finita.
Ci sono differenze fondamentali tra la crisi dei missili a Cuba e la guerra di aggressione di Putin in Ucraina. Non ultimo, il «tempo reale» introdotto nelle relazioni internazionali dalla rivoluzione digitale, che sottopone i leader politici a pressioni fortissime, chiedendo loro decisioni istantanee. Kennedy si prese quasi una settimana, dopo la scoperta dei missili a Cuba, prima di decidere la sua risposta. Ma sessant’anni dopo, il rischio di un incidente che inneschi una reazione catena non è diminuito. Anzi. Il sabotaggio, fin qui senza colpevoli, che ha messo fuori uso il gasdotto Nord Stream 1 e danneggiato il Nord Stream 2 è lì a dimostrarlo. Tanto più che, con le parole del direttore della Cia, William Burns, Putin «con le spalle al muro può essere pericoloso e incosciente».
E per questo che Biden e la sua amministrazione cercano una difficilissima quadratura del cerchio. Non possono e non devono dar l’impressione di voler «frenare» Volodymyr Zelensky e la riscossa ucraina, ma cercano di individuare quali possano essere gli incentivi in grado di spingere Putin a riportare indietro le lancette dell’orologio dell’Apocalisse. La Casa Bianca non esclude neppure un vertice tra i due presidenti in margine al G20 di Bali.
È un percorso strettissimo e carico di insidie, che gli sviluppi degli ultimi giorni e ore sembrano rendere ancora più impervio. La scelta degli americani di rivelare che sono stati i servizi ucraini, a loro insaputa, a organizzare a Mosca l’attentato che ha ucciso Daya Dugina, figlia dell’ideologo di Putin, è stato un avvertimento a Kiev a non lanciarsi in azioni azzardate. Ma l’esplosione che ieri ha parzialmente distrutto il ponte che collega Russia e Crimea, che i dirigenti di Kiev prima hanno applaudito ma da cui hanno poi preso le distanze, non è solo un’umiliazione, l’ennesima, per Putin. È anche il segnale che i rischi di una deriva incontrollabile rimangono altissimi.