Corriere della Sera, 9 ottobre 2022
I compiti del Consiglio di stato e della Ragioneria
Da qualche giorno i vincitori delle elezioni politiche hanno spostato la loro attenzione dalle trattative sulla composizione del governo alla caccia dei collaboratori ministeriali, gli staff, i «gabinetti». Una ricerca importante ma difficile: importante perché i «numeri due e tre» sono spesso il fattore di successo di una compagine di governo; difficile perché alla guida dell’esecutivo va una forza politica che ha avuto scarsa consuetudine con il potere.
È naturale che questo «head hunting» cominci dai due grandi corpi che sono stati tradizionalmente i «vivai di grandi commessi dello Stato» (traduco così l’espressione francese); non a caso sono tra i pochi che recano nella loro denominazione la parola Stato: Consiglio di Stato e Ragioneria generale dello Stato. Questi hanno una lunga vita (il primo nasce prima dell’Unità d’Italia, nel 1831; il secondo subito dopo, nel 1869); sono per legge o per tradizione preposti a funzioni fondamentali (governano la macchina delle leggi e quella della spesa); hanno, in modi diversi, terminali operativi nelle amministrazioni pubbliche, che consentono loro di «avere il polso» della gestione pubblica; a partire dalla Repubblica, hanno rimpiazzato nel ruolo di guida degli apparati il ministero dell’Interno, che in precedenza era legato da un cordone ombelicale con il presidente del Consiglio dei ministri, tanto che la presidenza del Consiglio fino al 1961 ha avuto sede presso il ministero dell’Interno.
N ei libri di storia delle istituzioni si ricorda il rispetto che Mussolini aveva per il Ragioniere generale Vito De Bellis, l’influenza esercitata dal Presidente di sezione del Consiglio di Stato Franco Piga, quale capo di gabinetto della Presidenza del Consiglio nel governo Rumor, l’importante ruolo svolto dal Ragioniere generale Vincenzo Milazzo quale capo di gabinetto di Giulio Andreotti.
Ma anche i guardiani dello Stato invecchiano e non riescono più a stare al passo con i tempi. Anche persone singolarmente molto capaci non sempre si dimostrano all’altezza dei compiti richiesti ai grandi corpi dello Stato. Questo è accaduto per diversi motivi. Perché, mentre svolgevano la loro funzione di custodi dello Stato, non si sono accorti che lo Stato mutava, e sono quindi divenuti i custodi dello Stato di ieri, rivelandosi una forza frenante. O perché non hanno saputo cogliere i mutamenti intervenuti nei rapporti Stato-società, ed hanno continuato a dire le loro messe in latino. O perché non sono riusciti a impadronirsi delle innovazioni tecnologiche che investivano gli apparati pubblici. O, infine, perché non hanno saputo valorizzare le forze vive, che pure esistono nella macchina pubblica, mentre è stata da loro considerata solo come un soggetto passivo, di cui assumere il comando o da tenere sotto controllo.
I consiglieri di Stato nei gabinetti ministeriali, hanno continuato a svolgere il compito di redattori di leggi nella maniera in cui scrivono sentenze, in modo casistico, pieno di riferimenti ad altre leggi, oscuro, senza ascoltare la parola delle molte scuole di linguisti che hanno dedicato tanta attenzione all’ordine, alla chiarezza, alla intellegibilità delle leggi. Hanno sempre proceduto per addizioni, senza fare attenzione ai labirintici percorsi che disegnavano per le amministrazioni e i cittadini, con più attenzione per il passato (il precedente) che per il futuro. Non si sono preoccupati di sviluppare nel proprio interno un corpo di legisti. Come primi amministratori, hanno supplito alle carenze delle burocrazie, ma non si sono preoccupati di dotarle di capacità gestionali, spinti da un generale orientamento vincolistico a porre limiti «ex ante» piuttosto che a prevedere controlli «ex post», sui risultati. Sono rimasti prigionieri della grammatica giuridica, ma non di un diritto «prospettico», bensì di un diritto fondato sul precedente e sul «combinato disposto». Nel frattempo, il «Conseil d’État» francese, che è stato il modello di quello italiano, ha invece ispirato, disegnato, organizzato la codificazione del diritto francese, un’opera che coinvolge ormai più della metà delle leggi di quel Paese, rendendo così la vita facile a cittadini e amministratori.
La Ragioneria, a sua volta, attenta alla «domiciliazione» della spesa e al controllo del rispetto dei suoi limiti, mentre tiene sulla corda persino il Parlamento, si fa sfuggire la galassia dei satelliti statali, tanto che le sue statistiche – sempre più carenti – non riescono a includere i loro dipendenti. Fa controlli ragionieristici, ma non riesce a fare analisi costi-benefici, perché «l’amministrazione vive senza i conti e i conti vivono senza l’amministrazione», come osservava un alto funzionario dello Stato già un secolo fa. Non è riuscita, salvo qualche iniziale tentativo, a introdurre il calcolo economico nello Stato, mentre la «bollinatura», il timbro che dà il via a qualunque decisione pubblica, resta un oscuro ma definitivo «rescritto del principe», non motivato, e fondato su parametri e calcoli sconosciuti. Accetta, però, l’ossessiva ripetizione della ipocrita clausola di invarianza finanziaria, che si può leggere in tanti atti, secondo la quale «agli adempimenti disposti da questa norma si deve provvedere con le risorse umane, strumentali e finanziarie già previste a legislazione vigente».
Consiglio di Stato e Ragioneria generale dello Stato, se vogliono – come tutti auspichiamo – continuare a svolgere il prezioso ruolo che hanno svolto nel passato, debbono cogliere i mutamenti intervenuti nella struttura dei poteri pubblici e nella domanda sociale rivolta allo Stato e dotarsi della «expertise» tecnica necessaria. Il Consiglio di Stato non può mandare ottimi autori di sentenze a scrivere leggi, perché queste vanno scritte da legisti, non da magistrati (mentre le strutture parlamentari, dove esistono i migliori confezionatori di leggi, dovrebbero dare anche esse il loro contributo al governo, che è divenuto il maggiore legislatore). La Ragioneria generale dello Stato deve dotarsi di economisti, se vuole continuare a svolgere il compito di supremo guardiano della finanza (mentre l’Ufficio parlamentare di bilancio dovrebbe cercare di corrispondere alle funzioni per cui era stato istituito, quelle di occhio del Parlamento). Infine, forse non sarebbe inappropriato che qualche ingegnere, qualche matematico e qualche filosofo venisse chiamato a far sentire, in questi grandi corpi, la voce di culture diverse.