Tuttolibri, 8 ottobre 2022
Gordon Lish, il signor aggiustascrittori
Ti onoro e ti rispetto e ti voglio bene più di quanto ne voglia a mio fratello. Ma devi assolutamente tirarmi fuori da questo guaio, Gordon, sul serio. Non posso fare neanche un altro passo avanti in questa impresa. Perciò, ti prego, dammi un consiglio su cosa devo fare ora… Come ho detto, mi sento confuso, stanco, paranoico e ho paura, sì, ho paura delle conseguenze a cui andrei incontro se la raccolta uscisse nella forma attuale. Perciò, aiutami, ti prego, ancora una volta. Ti prego, non rendermi la situazione ancora più difficile, perché ci vuole poco prima che io vada in pezzi per la consapevolezza di averti contrariato e deluso. Dio onnipotente, Gordon. Ray.
Gordon è Gordon Lish, Ray è Raymond Carver. La lettera è del 1980. Carver ha appena ricevuto la versione editata dei racconti che dovrebbero formare la sua seconda raccolta. È sconvolto. «Sembrava che quei fogli fossero finiti in mano a un qualche bambino capriccioso» tanto sono neri di segni, cancellature, aggiunte, scrive D. T. Max in un articolo del «New York Times Magazine» del 1998 che in qualche modo dette l’avvio alla riscoperta di quelle prime versioni e alla discussione sull’apporto di Lish all’opera di Carver. Consultando l’archivio dello scrittore all’Università dell’Indiana, Max scopre che alcuni racconti, come Il Signor Aggiustatutto e le macchinette del caffè, sono tagliati del settanta per cento, altri «solo» di un terzo, altri ancora con intere parti riscritte. Molti hanno il finale tagliato di netto: quel senso di sospensione dolente, di possibilità aperta, ma anche di tragedia incombente così grande che non ci sono parole adatte a raccontarla, quella sensazione che la scrittura si ritragga di colpo di fronte alla realtà, al suo nodo indissolubile di fallimento, amarezza e perdita, be’, tutto questo sono un’invenzione di Gordon Lish. La raccolta uscirà l’anno successivo per Knopf, l’editore dove lavorava Lish, con il titolo Di cosa parliamo quando parliamo d’amore. Carver muore nel 1988 per un cancro al fegato. Nel 2008 vengono pubblicati postumi i racconti nella versione scritta da Carver. Il titolo è Principianti.
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Chi è Gordon Lish? «Ubiquo. Magro. Devoto. Veloce. Brillante. Estenuante. Pazzo. Editor (presso Knopf). Insegnante (di due classi da sei ore a settimana). Scrittore (con uno stile tra Joyce, Salinger e Jackie Mason). Negli ultimi due anni ha anche fondato e diretto una rivista letteraria, «The Quarterly». Il soprannome con cui è noto da anni è Captain Fiction. Ovviamente se l’è dato lui, questo soprannome». È la risposta – in terza persona – che ha dato lui stesso in un’intervista a «Esquire» negli anni Ottanta. In effetti, nella sua arzigogolata artificiosità, è la risposta più corretta alla domanda «chi è Gordon Lish»: si ha sempre la sensazione di guardare un orologio senza quadrante, in cui gli ingranaggi sono in bella vista e girano così velocemente che formarsi un’immagine (una verità) stabile, non destinata a sciogliersi e contraddirsi nell’immagine (nella verità) successiva, è quasi impossibile. È la stessa sensazione che proverete leggendo i suoi racconti: quella di gettare lo sguardo in una stanza piena di specchi. In un lampo riconoscerete il loro autore, in un riflesso improvviso vi si parerà uno sconosciuto, in una scheggia ritroverete voi stessi in una luce diversa. Questo anche grazie al rivolgersi direttamente al lettore, quasi un guardarlo negli occhi: «Voglio raccontarvi della rovina di un uomo», «Ascoltate, a me la poesia interessa né più né meno che a voi». Ma mai per lusingarlo o compiacerlo, anzi. Colpisce, leggendo i suoi racconti, come un uomo che ha passato buona parte della vita dentro l’industria editoriale sia tanto indifferente a compiacere il lettore. O forse no, forse proprio perché è anche un uomo di editoria, Lish come scrittore è tanto interessato a mostrare i meccanismi della narrazione. Prendete Salinger, toglietegli la pelle, e poi ancora fino a scarnificarlo, fino a ottenere solo ossa e tendini: ecco che avrete i racconti di Gordon Lish.
Nato a Hewlett, NY, nel 1934, dopo gli studi in letteratura inizia a lavorare come presentatore radiofonico (una capacità, quella di sedurre anche con la voce, che gli rimarrà sempre attaccata). Nel 1969, praticamente senza un curriculum alle spalle, riesce a farsi assumere a «Esquire» come editor della fiction. Pare che fosse stato scelto per merito di una lettera di accompagnamento particolarmente ispirata, in cui prometteva che avrebbe portato sulla rivista «la nuova letteratura americana». Fu di parola. Pubblica racconti di Carver, Richard Ford, Cynthia Ozick, DeLillo, T. C. Boyle, Alexander Theroux e molti altri, facendo di «Esquire» la rivista da leggere per ascoltare la voce della nuova America. Ed è una voce che Lish contribuisce a plasmare in prima persona. Con Carver erano amici da qualche anno, all’epoca in cui Lish si era trasferito a Menlo Park, in California, dove il futuro autore di Cattedrale lavorava saltuariamente in una casa editrice di scolastica. E Carver fu uno dei primi che Lish chiamò a pubblicare su «Esquire»: aveva promesso di portare la «new fiction» sulla rivista, aveva giusto un po’ di pressione addosso. Il vecchio amico Ray doveva aiutarlo. Con l’editing di Vicini (un processo che, in alcune pagine, mantiene meno della metà delle parole di Carver), pubblicato nel 1971, ecco che la voce della nuova narrativa americana viene ascoltata da tutti. È la voce di quello che verrà definito minimalismo.
Naturalmente non tutti accettano gli interventi di Lish. DeLillo per esempio, con cui però resteranno sempre amici, rifiuterà di pubblicare un’anticipazione dal suo romanzo Great Jones Street proprio perché Lish chiedeva di tagliarlo.
Nel 1977, Lish lascia «Esquire» e, forte del soprannome autoassegnatosi di Captain Fiction, inizia a lavorare come senior editor a Knopf, uno dei più prestigiosi editori americani. Qui, fino al 1995, scoprirà o pubblicherà autori come Ozick, Carver, Hannah, Anderson Ferrell, David Leavitt, Amy Hempel, Harold Brodkey e Joy Williams. Alcuni arrivano dagli anni di Esquire, altri dai seminari di scrittura che tiene prima a Yale, poi alla Columbia e alla New York University. I suoi corsi sono leggendari: una lezione poteva durare anche sei ore del suo ipnotico e seducente eloquio, sei ore in cui un giovane dalle aspirazioni letterarie veniva esposto senza protezioni al carisma seducente e quasi manipolatorio di Lish, colui che, se incontravi la sua approvazione, poteva farti passare in un secondo dalla condizione di sconosciuto a quella di autore pubblicato, di scrittore.
«Dovete sedurmi» diceva ai suoi studenti. Dovete sedurmi perché io vi veda, vi riconosca, vi dica chi siete. Non è in fondo quello che dice ogni editor guardando la pila di manoscritti? Devi convincermi, certo: ma quest’opera di convinzione e persuasione non è anche qualcosa che ha a che fare con la seduzione, il desiderio? Devi sedurmi, quindi, devi uscire dalla tua comfort zone, metterti in pericolo, mostrarti a me per quello che realmente sei, con tutte le tue fragilità, i tuoi irrisolti, il tuo dolore. Guardate come Lish illustra la faccenda del «mostra non raccontare»: «È proprio come il sesso, non dici: "Ok, ora mi avvicinerò e ti bacerò in bocca, e la mia bocca sarà aperta, quindi spero che lo sia anche la tua, e con la mia lingua sfiorerò leggermente le tue labbra, poi ti bacio con gli occhi chiusi e, oh, mentre lo faccio, ti metterò un braccio intorno, sfiorandoti il capezzolo e il seno mentre mi muovo per attirarti più vicino, e mentre sto facendo tutto questo, ti sposterai sul sedile e infilerai una mano tra le mie gambe…". Sembra molto divertente, ma non lo dici, lo fai e basta».
È un rapporto di potere, in un certo senso. Che però, attenzione, si può, anzi si deve sempre rovesciare nel suo opposto: ogni autore ha una safe-word, una semplice parola che non solo lo libera dal controllo dell’editor, ma ne fa l’autentico padrone. E quella parola è: no. No, questo intervento non mi convince, no questo taglio non lo facciamo, no questa frase ha questa funzione, per questo deve rimanere. C’è una regola fondamentale dell’editing, una pratica che alla fine si rinnova e stabilisce le sue leggi ogni volta che un autore e un editor iniziano a lavorare insieme, ed è: a matita. L’editor lavora con la matita, nel senso che ogni suo intervento è unicamente una proposta e che come tale può essere cancellata, rifiutata, discussa. Al giorno d’oggi, ovviamente, è una matita metaforica: ma anche quando tutti i passaggi si fanno solo in forma digitale, restano, quelle dell’editor, sempre proposte, domande, sollecitazioni. «Dio onnipotente, Gordon.» Nel caso di Carver questo «no» fu particolarmente difficile, arrivò solo dopo molti anni di una relazione tra le più intricate ma anche tra le più fertili della narrativa statunitense.
«Ti consideri uno scrittore o un editor?» gli chiede Christian Lorentzen intervistandolo per la Paris Review (The Art of Editing No. 2). «Non sono uno scrittore. Non ho alcun interesse a essere considerato uno scrittore. Eppure, quando scrivo, sono il più esigente possibile. Voglio che tutto ciò che scarabocchio sia ben scarabocchiato.»
Leggendo questa raccolta che seleziona il meglio della narrativa breve che Gordon Lish ha composto parallelamente al suo lavoro di editor e insegnante, apprezzerete l’understatement della risposta alla «Paris Review». Letta adesso, qui, sembra quasi un avviso di spoiler: nulla (o quasi) di quanto avete letto fin qui su Lish, nulla di ciò che sapete su di lui, vi può preparare all’esperienza della lettura di questi racconti. Non c’è il minimalismo che Lish ha contribuito, be’, a creare. Non ci sono atmosfere rarefatte in cui restano sospese emozioni non dette. Sono racconti scritti da chi ha una consapevolezza quasi dolorosa – a volte direi tragica – di una cosa: che le parole, queste parole bugiarde e seducenti, hanno una vita, una vita loro, hanno le loro regole, i loro incastri, le loro necessità. C’è insomma qualcosa che, questa sì, attraversa la vita e l’opera di Gordon Lish: una fiducia pazza e sconfinata nel potere manipolatorio del linguaggio. Nell’idea che le parole possono ingannare – non ho fatto un sondaggio preciso, ma a occhio direi che nessuno dei narratori di questi racconti è un narratore affidabile – ma che, proprio ingannandoci, possono avvicinarci alla verità. E cos’è questa se non una definizione di seduzione?
«Pagine» ho detto. «Abbiamo riempito abbastanza pagine?».
«Da trecentosettantuno a trecentosettantaquattro» ha detto.
«Oh, piccola» ho detto, «e ora fammi un bell’editing, piccola, ti prego!».