Robinson, 8 ottobre 2022
Intervista a Enrico Rava
Il trombettista, 83 anni, ricorda i suoi riferimenti, da Miles Davis a Louis Armstrong e Bix Beiderbecke E ora pubblica un nuovo disco, “ The Song Is You”, inciso con Fred Hersch
Porta addosso l’odore del Novecento che è stato anche il secolo del jazz.
Enrico Rava è un fiero e affascinante prodigio di stampo piemontese, un maestro che a 83 anni ancora riesce a scaldare il cuore e la mente di chi lo ascolta con un suono avvolgente, attento, a volte struggente, mai casuale. Un improvvisatore nato, attivo come non mai, pieno di appuntamenti live, anche nella modalità del duo, che predilige, come nel nuovo disco inciso col pianista americano Fred Hersch per la Ecm, intitolatoThe Song is You.
Anche in questo disco non c’è una nota fuori posto, non c’è melodia che non sia profondamente motivata. «È la famosa frase che mi disse Joao Gilberto quando lo conobbi a New York: cerca di fare solo le note necessarie, e ne ho fatto tesoro» racconta Rava, pacato eriflessivo come sempre «oggi sento tanti musicisti tecnicamente bravissimi, fanno un miliardo di note, ma che senso ha?».
Nessuno, caro Rava proprio nessuno. Ma questa essenzialità ricorda anche l’insegnamento di Miles Davis, non è così?
«Come tutti sanno è il mio musicista di riferimento, e non solo per come suonava la tromba, anche per come organizzava la musica e direi anche per la sua idea di drammaturgia. Penso sempre al suo solo inStella by Starlight, un capolavoro costruito con una drammaturgia incredibile. Poi amo tantissimo Louis Armstrong e amo follemente Bix Beiderbecke, non passa settimana che io non ascoltiqualcosa di uno o dell’altro».
Una volta Miles lo ha anche conosciuto. Cosa accadde?
«Nel 1969 suonavo a New York con un gruppo di rockjazz che si chiamava Gas Mask, il produttore era Teo Macero, notoriamente anche il produttore di Miles.
Quando uscì il disco lo presentammo in un locale chiamatoUngano’s. Teo disse a Miles di venire, ma io ovviamente non ci credevo. Ero fuori a fumare e vedo questo nero piccolo, bellissimo vestito hip che mi fa: “Are you playing tonight?”. Io semiparalizzato risposi di sì e lui: “I want to chek you out” e si mosse per entrare. La folla all’ingresso si è divisa come se passasse Mosè, io hochiamato subito casa dove vivevo con Gato Barbieri e sua moglie e gli ho detto venite subito con una grande quantità di Librium, loro sono arrivati e io ho preso la dose che era indicata per casi gravi. Alla fine Miles mi ha dato un pugno amichevole e mi è rimasto il livido per giorni, era fortissimo. Mi chiedeva dell’Italia, era fissato con la nostra cucina, poi mi disse: “Sono alla ricerca di un sassofonista”. Io, corsi da Gato e gli dissi, dai vieni a parlare con Miles, lui sprofondò nella paranoia, non voleva venire, sua moglie Michelle lo incitava, ma lui niente. Tornai da Miles e gli chiesi se poteva essere così gentile di venire lui. A quel punto Miles disse, e no, non ci vado, io sono il boss».
Fred Hersch la definisce “european jazz royalty”, una regalità che ha attraversato decenni di musica e incontrato decine di musicisti. Qual è il demone che la spinge ad andare sempre avanti?
«Cerco di fuggire dalla noia, dalla routine, queste esperienze diverse mi tengono viva la passione, perché ogni volta è diverso, come se fosse nuovo, se dovessi annoiarmi, smetterei subito, starei a casa a leggere o andrei a dar da mangiare ai passerotti al parco».
Cosa succede quando suona con Fred, come decidete il da farsi?
«Lo decidiamo all’ultimo momento, alcuni brani sono quelli che suoniamo sempre, altre volte uno dei due lancia un tema e l’altro ci salta dentro, devo dire che Fred conosce davvero tutto, poi ci mettiamo molto del nostro. I’m getting sentimental è diversa da tutte le altre versioni che esistono.
The song is you parte quasi free e poi arriviamo al tema. Fred ascolta molto l’interlocutore, recepisce tutto, come fosse una conversazione tra persone che hanno affinità. Dovrebbe essere normale ma non lo è, anzi è piuttosto raro. Ho visto decine di concerti, ci sono questi gruppi di All Stars, con sfilze di assoli molto belli, ma non c’è mai musica collettiva, alla fine non ne puoi più, è la parte negativa del jazz, quando diventa una cosa muscolare, una gara a chi alza più peso».
Quali sono i personaggi più interessanti che ha conosciuto?
«Tanti, ovviamente ma fra tutti direi João Gilberto, era completamente pazzo, non usciva mai. Una volta sono arrivato da lui con dei pantaloni nuovi e lui mi disse “come sei fortunato”, io dissi ma puoi farlo anche tu, e lui “no, non posso”.
Oppure Gil Evans, lo conobbi quando arrivai a New York la prima volta nel 1967 e credevo che musicisti come lui stessero bene, era già famoso, lui doveva fare una domanda per una borsa di studio molto alta e non aveva una macchina da scrivere e siccome Steve Lacy, con cui lavoravo, ce l’aveva, Gil e la moglie vennero, vivevano in un seminterrato e non potevano uscire tutti e due perché non avevano i soldi per una baby sitter. Nel modulo da compilare c’era la domanda: quanto hai guadagnato l’anno precedente? Lui rispose: 25 dollari. Rimasi di stucco, poi vinse la borsa che era molto sostanziosa e lui mi voleva molto bene anche per questo. Cecil Taylor era già molto conosciuto e faceva il commesso in libreria, Roswell Rudd faceva ancora il tassista e aveva già inciso due dischi con la Impulse: in America il jazz era così».
Non ha voglia di immaginare un disco o uno spettacolo che sia un riassunto sentimentale della sua vita?
«È quello che faccio ogni volta, ripesco sempre cose mie degli anni Settanta o Ottanta e le rimetto in pista. In realtà in ogni nuova cosa che faccio ci metto dentro tutta la mia vita passata».