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 2022  ottobre 08 Sabato calendario

Biografia di Paolo Zellini raccontata da lui stesso

Nel mondo di Paolo Zellini i numeri rivestono un’importanza capitale. I suoi libri descrivono entità matematiche senza che si esauriscano nel linguaggio tecnico. Ai suoi occhi la forza dell’astrazione è soprattutto nella capacità di farsi cultura: entrare nel campo della religione o della filosofia, senza indebolirne la potenza di calcolo. Conosco Zellini fin da quando mi sorprese con un bellissimo libro sull’infinito e la sua storia.
Un lavoro che Giuseppe Trautteur, consulente e curatore scientifico dell’Adelphi, intercettò e fece pubblicare. Era la metà degli anni settanta. Zellini si occupava allora delle ultime frontiere della “computer science”. «Stavo partendo per gli Stati Uniti. Poco prima conobbi, grazie a Elèmire Zolla, l’editore di Adelphi Roberto Calasso. Fu lui a scegliere il titoloBreve storia dell’infinito.La nostra intesa fu totale. La sua immagine della scienza corrispondeva alla mia e creava un luogo suggestivo dove fisica, letteratura, matematica e filosofia si erano date un appuntamento imprescindibile». Da allora Zellini è stato un perfetto autore Adelphi. Nel suo nuovo libro,Discreto e continuo, è possibile apprezzare la grande duttilità con cui maneggia gli strumenti della letteratura e della scienza.
Sorprende l’avvio folgorante, nientemeno che con idiavoli di François Rabelais.
Perché un inizio così stravagante e letterario?
«Perché è difficile per me parlare del calcolo moderno senza far ricorso anche alle mie conoscenze letterarie. C’è un passo nel Gargantua e Pantagruele, dove Panurge impartisce una lezione di demonologia a uno sprovveduto frate, al quale spiega perché nel corso di una battaglia il fragore che si avverte è solo in parte dovuto all’urto delle armature e dalle grida dei feriti. Ilgrande frastuono dipende dai lamenti dei diavoli i quali, dice Rabelais “ricevono dei colpi di spada inaspettati e patiscono soluzione nella continuità delle sostanze loro aeree e invisibili”.
Non è che la frase sia di immediata comprensione.
«I diavoli hanno paura che i colpi di spada separino le loro sostanze, interrompano quel processo di continuità su cui si sorregge la loro diabolica vitalità. È abbastanza evidente che quel passo appartiene a un clima culturale in cui, oltre che di demonologia, si discute anche del ruolo della matematica. Nel Cinquecento, sebbene si cominciasse a ragionare su un principio di continuità, matematici come Cardano e altri spiriti illuminati del tempo non esitarono a inoltrarsi in sottili questioni di demonologia.
Scienza e magia avevano più di un punto di contatto».
Ma l’idea di un continuo matematico ha origini più antiche.
«Troviamo un continuo omogeneo e indifferenziato già in Parmenide. Il concetto di un continuo ha ispirato pure la cultura vedica del primo millennio a.C. Per queste due forme di civiltà era chiaro che la concezione di una grandiosa catena dell’essere – che si ritroverà nella filosofia e nella religione di ogni tempo – dipende da costruzioni computazionali nel discreto.
Parlo di procedimenti computazionali precedenti all’uso dei computer ma già basati sul calcolo algoritmico. La matematica computazionale dell’ultimo secolo, quella che fa un uso massiccio dei computer, ha reso sempre più chiaro che il continuo è un’estrapolazione ideale di calcoli discreti».
Farei un passo indietro. Nel parlare della cultura vedica, sostieni che gli altari dove si compivano i rituali,erano forme geometriche ben precise. Ma puòuna religione fondarsi sul calcolo numerico?
«Una religione dovrebbe fondarsi sul calcolo per diversi motivi. Il calcolo è l’ultima forma di visibilità del mondo reale, una soglia ideale per concepire un passaggio dal visibile all’invisibile, regolato da norme precise e inderogabili. Di qui la convinzione che non c’è nulla di più esatto di una prassi rituale. Ci sono segni evidenti di questa idea in Grecia come in India.
Che cosa c’era di più adatto della matematica per esprimere questa esattezza? Simone Weil osservava che nella geometria troviamo un’immagine dell’Incarnazione. È un’affermazione suggestiva: dopotutto anche la geometria è qualcosa nella quale si incarna un’entità che altrimenti non sapremmo come descrivere. Non c’è da stupirsi che siano proprio i rituali religiosi alla base della dimostrazione rigorosa e del logos matematico».
Il rito, come esecuzione e ripetizione di regole, sarebbe dunque alla base delle prime scoperte matematiche?
«In un certo senso è così. Il rito è una rigorosa esecuzione formale di azioni e recitazioni in grado, almeno virtualmente, di mettere in contatto il nostro mondo con le potenze celesti. Il visibile con l’invisibile. Potremmo dire che i primi a porre problemi matematici non furono gli uomini ma gli dèi. I veggenti della tradizione vedica videro per primi la struttura geometrica dell’altare del dio Agni, in cui doveva prendere forma l’universo conoscibile».
L’ordine geometrico dell’altare era lo stesso che si sarebbe dato al mondo?
«L’altare rispondeva all’esigenza di evitare che nel mondo si producessero dispersioni e disgregazioni.
Anche la matematica greca, non priva di riferimenti alla prassi rituale, serviva a questo scopo».
Questo bisogno di continuità, ossia di compattezza del mondo, nell’antichità nasceva dal terrore che il discontinuo prevalesse. Ma perché l’uomo ne aveva paura?
«Prova a immaginare un universo in cui tutto è slegato da tutto, in cui manca una qualsiasi articolazione del tempo, una qualsiasi forma di legame di una cosa con l’altra. Non sarebbe, questo caos, un universo disorientante e spaventoso? Il rimedio al disordine, sempre e comunque latente, è stabilire, ove possibile, forme di razionalità e quindi collegamenti, cioè rapporti di contiguità e continuità tra le parti del mondo».
Religione, filosofia, letteratura, matematica vogliono essere una risposta a questo caos. Provano a creare, tu diresti, un continuo che stabilizzi il mondo. Ma di questo insieme di campi del sapere quando hai preso consapevolezza?
«Fin dagli anni dell’adolescenza queste discipline hanno cominciato a destare in me un vivo interesse e direi una passione. Ricordo una lettura in cui Einstein parlava di una “religiosità cosmica” che ha influenzato spiriti molto diversi, come Democrito, Francesco d’Assisi e Spinoza. Una “religione” che non conosce dogmi né dèi e su cui non può basarsi la dottrina di alcuna chiesa. Quanto alla scoperta di ciò che matematica e letteratura possono avere in comune, la devo soprattutto alla lettura di Robert Musil. In questo caso, mi fu di aiuto la frequentazione di Claudio Magris. Fu lui infatti a introdurmi negli anni Novanta alle attività di un Laboratorio di discipline scientifiche e umanistiche, alla Sissa di Trieste. Lì ebbi l’occasione di trattare in completa libertà il rapporto tra anima e esattezza attraverso lo studio di autori come Broch e Gadda, Musil e Calvino, Schnitzler e Freud.
A proposito della tua adolescenza, viene la curiosità di chiederti come è stata.
«La domanda mi imbarazza e forse l’imbarazzo è già una risposta. Oltretutto, non credo che la mia vita offra spunti particolarmente interessanti che non siano quelle letture formative tra le quali, a parte gli autori già citati, includerei Melville e Cervantes».
Le loro sono opere mondo.
«Vanno oltre la normale geografia letteraria. Tali opere, insieme ad altre, hanno dato una forma ai miei sogni, alle premonizioni e favorito viaggi che implicavano esperienze iniziatiche».
Pensi a qualche situazione particolare?
«Ricordo una traversata coast to coast degli Stati Uniti in cui ebbi modo di visitare i villaggi degli Indiani Pueblo. Quel viaggio giunse alla fine di un periodo di studi e ricerche che trascorsi presso il Dipartimento di Computer Science della Carnegie Mellon University di Pittsburgh».
Gli Indiani Pueblo erano stati visitati qualche decennio prima da Aby Warburg. Fu quella la ragione?
«Non avevo ancora letto Il rituale del serpente di Warburg. La verità è che dovendo attraversare il New Mexico trovai attraente fare una visita agli indiani Pueblo. Mi colpì il fatto che non vivevano in una riserva, ma continuavano ad abitare nei villaggi in pietra conservando le loro abitudini. Ero incuriositodai loro riti. Alcuni si potevano vedere e altri no. Una specie di scala esoterica. Assistetti a una danza dove a un certo punto comparve la figura del trickster, cioè un personaggio irregolare. Tutti si muovevano in ranghi serrati e uniformi, solo iltrickster sembrava danzasse a casaccio. Mi venne in mente la scena di Stanlio e Ollio nella legione straniera».
Che significato attribuisti alla scena?
«Pensai che ordine e disordine hanno bisogno l’uno dell’altro. Se il mondo fosse solo ordine immagina che incubo sarebbe la realtà. In fondo, in ogni processo creativo c’è necessità di scompaginare le carte».
I tuoi processi creativi come si sposarono con gli anni dell’università?
«Non benissimo. All’università di Roma feci una tesi con Bruno de Finetti sulla teoria dei giochi. Non ne ricavai granché. Rinunciai perfino a una borsa di studio che de Finetti mi propose».
Perché?
«Preferii spostarmi a Pisa dove, pur tra profondi dubbi sulla mia reale vocazione matematica, mi sono formato scientificamente. Quella scelta pisana si è alla fine rivelata irrinunciabile. Ho insegnato e fatto a lungo ricerca presso il dipartimento di Informatica di Pisa. Avevo bisogno di capire con calma e secondo la mia ispirazione problemi chespesso mi inventavo di sana pianta».
Praticavi una matematica creativa. Chi erano i tuoi maestri?
«Devo soprattutto a Milvio Capovani e a Gianfranco Capriz e ad altri esponenti della comunità scientifica internazionale, un incoraggiante apprezzamento per i miei contributi sul calcolo matriciale. Non tutto fu semplice. L’autonomia di lavoro mi costò inizialmente molta fatica e un senso di isolamento. Ma per me era quasi una necessità continuarla. Capovani, che potrei in effetti considerare un mio maestro, definiva le mie ricerche, in relazione a quelle di altri colleghi che stimavo, un caso di “convergenza parallela”».
Un maestro un po’ speciale fu Elèmire Zolla.
«La conoscenza di Zolla rispondeva inizialmente a esigenze culturali ed esistenziali che non si accordavano con la mia attività accademica all’università di Pisa. Vissi quindi una lunga scissione tra una visione del mondo scientifica, conforme all’ambiente che frequentavo, e una vocazione umanistica che vedevo in netto contrasto con la prima».
Zolla in che modo ti fu d’aiuto?
«Mi fece scorgere le vere finalità della ricerca. Finalità che mi divennero sempre più chiare negli anni, tanto da farmi capire che la mia scissione era precisamente la sfida che mi avrebbe portato a una visione nuova e inusitata della matematica e dell’informatica, in cui scienza e umanesimo potevano accordarsi. Zolla mifece pure scoprire Florenskij, un esempio inimitabile di accordo tra matematica, arte, filosofia e teologia, le discipline tra cui stavo cercando una mediazione.
Florenskij - che il potere staliniano rinchiuse in un Gulag e fucilò – capì la straordinaria potenza simbolica della matematica e la sua capacità di rappresentare l’invisibile e l’indicibile. A Zolla devo pure, come ti dicevo all’inizio, i miei primi contatti con Roberto Calasso e, indirettamente, con Giuseppe Trautteur, a cui seguì la pubblicazione nel 1980 della Breve storia dell’infinito ».
Ti consideri più uno storico della matematica o un matematico puro?
«Sono un matematico e non uno storico della matematica. Se mai, dietro l’esempio del grande matematico Otto Toeplitz, sono interessato alla genesi dei problemi e ai punti di svolta decisivi per questa genesi. Se non mi riconosco pienamente nelle vesti di ciò che si intende di solito per “matematico puro”, è solo perché – come intuì Hermann Weyl – i formalismi con cui operiamo di solito tendono a nascondere, più che a rivelare, le loro più profonde motivazioni».