Corriere della Sera, 8 ottobre 2022
Intervista a Renato Pozzetto
«Al Bar Gattullo, dove passavo i pomeriggi da ragazzo con i miei amici, avevamo creato un ufficio-facce, per decidere chi poteva far parte della comitiva». Molto prima che arrivasse Facebook, Renato Pozzetto, aveva inventato con il suo gruppo una commissione immaginaria, per selezionare i nuovi amici da ammettere al bar di Porta Lodovica, a Milano. Che venivano quasi tutti respinti: «Quando qualcuno non aveva i tempi del nostro umorismo o semplicemente tifava la squadra di calcio sbagliata, la battuta ricorrente era: “Ma questo è passato dall’ufficio facce?». La cultura da bar, della battuta veloce, il riscontro immediato della risata: o scoppiava subito o mai più, nessuno sconto dalla platea implacabile del tavolino. Una palestra che ha fatto di Renato Pozzetto, nato 82 anni fa sotto il segno del Cancro, uno dei più grandi cabarettisti e attori comici italiani, con oltre 70 titoli e solo uno, sul finale, drammatico, insieme a Pupi Avati. «Con Pupi avevamo litigato, quando ha avuto il coraggio di farsi risentire per farmi leggere il copione ero ancora nero... poi ho iniziato a sfogliarlo e mi sono commosso. E ho detto di sì».
E ha fatto bene. Per la sua interpretazione in «Lei mi parla ancora» è stato candidato al David di Donatello.
«Avevo perso mia moglie da poco, non volevo che realtà e finzione si mischiassero. Ci siamo riusciti».
Perché avevate litigato con Pupi Avati?
«Una stupidaggine, aveva preso le difese di una persona che più tardi ha deluso anche lui. Mi offesi perché scrisse un biglietto in cui attaccava anche la mia carriera, alcune mie scelte».
Un ruolo drammatico dopo 70 titoli comici. È stato difficile non fare il mattatore?
«Il mio è stato sempre un umorismo sottile, alla milanese. Non sono nato battutaro, quella del cabaret era una scuola del surreale. Io e Cochi Ponzoni abbiamo passato la vita a ridere come matti dei nostri nonsense».
Con Cochi vi siete conosciuti da piccoli.
«Siamo nati tutti e due a Milano nello stesso quartiere e tutti e due, fatalmente, siamo stati sfollati durante la guerra a Gemonio. Nel 1942 una bomba ha beccato in pieno il palazzo dove abitavo e sono rimasto senza casa. A Cochi sua mamma aveva comperato una chitarra, suonavamo le canzoni che sentivamo alla radio».
Fino alla prima media è stato un laghèe.
«Poi siamo tornati a Milano, in un alloggio del Comune: si chiamavano case minime ed erano abbastanza disumane, piccoli nuclei vitali in mezzo a cortili enormi. Poi ci siamo trasferiti dove c’era il capolinea del tram 3, nel quartiere Baia Del Re. C’era gente che si guadagnava onestamente lo stipendio, come mio padre, ma anche la malavita. Ho giocato con figli di gente complicata».
Il bar.
«Ci trovavi di tutto. Una volta arrivò un pittore che ci presentò Piero Manzoni: iniziammo a frequentarlo, un genio purtroppo sregolato nel bere. Ci incontravamo spesso all’osteria L’Oca d’oro, dove artisti e pittori di Milano erano di casa. Il proprietario amava la nostra ironia e anche i frequentatori apprezzavano: Lucio Fontana ci diceva in milanese “voi due dovreste andare a Sanremo” e poi aggiungeva: “Ghe pensi mi”».
E vi ha davvero aiutati?
«No, però una sera invitò Cochi – che lo aveva riaccompagnato a casa – a salire per bere un ultimo bicchiere e regalargli un quadro. Cochi incredibilmente non ha accettato l’invito e quindi niente quadro. Sono sempre stato invidiosetto di questa proposta fatta a Cochi e non a me. Sarei salito di corsa».
La svolta.
«Agostino-Tinin Mantegazza e sua moglie Velia aprirono una galleria d’arte notturna frequentata da Giorgio Gaber e Enzo Jannacci. Poco dopo Tinin e Velia inaugurarono in un sottoscala il Cab 64: noi lì cantavamo le nostre canzoni milanesi. Cochi aveva pensato di fare un brano intitolato “A me mi piace il mare” e diceva: “A me mi piace il mare, tanto, effettivamente... in occasione dell’estate, nonostante la stagione, ho comperato un canotto e un ombrellone, sono sempre in giro in spiaggia, qui le spese vanno su, ho bisogno di vederti, sì ma torna presto che non vivo più”. E tra una strofa e l’altra io spiegavo al pubblico cosa fosse il mare. Nasceva così la nostra vena surreale, la gente veniva a vederci, la voce girava».
Il Derby.
«Un successo incredibile, la gente prenotava il Capodanno da un anno all’altro, c’era così tanta folla che era stata creata una scala che si alzava e si abbassava dopo la porta d’ingresso, per cui quando la scala saliva l’entrata non esisteva più. Era frequentato dalla gente della televisione: per noi arrivarono le prime trasmissioni».
Enzo Jannacci.
«Il nostro più grande sostenitore, che diventò anche il mio medico di base. Nacque un’amicizia fortissima, nonostante lui fosse notoriamente Schizzo...».
Cosa significava Schizzo?
«Un tipo nervoso, imprevedibile. Grazie al Derby arrivò la Rai, con Canzonissima che faceva 20 milioni di ascolti e poi anche il cinema. Mi ritrovai a firmare tre contratti cinematografici e per festeggiare andai a mangiare l’aragosta. Ebbi una intossicazione e Enzo dopo avermi fatto una puntura se ne andò via ridendo con un matto nel corridoio. Non ho mai capito cosa volessero dire quelle risate».
Altre stranezze?
«Enzo amava le barche e finalmente se ne comperò una di 7 metri. Mi invitò a provarla: credevo mi portasse al mare, invece aveva decisa di tenerla all’Idroscalo. Ci ritrovammo in mezzo all’acqua, soli, con un freddo glaciale».
Un po’ come il freddo implacabile della cascina de «Il Ragazzo di Campagna».
«Il successo cinematografico più grande, nato senza aspettative, quasi preso sottogamba: con Castellano & Pipolo ci siamo messi a scrivere con l’idea di non dover fare un film da botteghino natalizio».
Fotografò con anticipo la bolla immobiliare milanese: monolocali a prezzi stellari.
«C’era anche lì un po’ di biografico: io e Cochi, dopo Canzonissima, avevamo cominciato a lavorare fuori Regione. Quando tornavamo dagli spettacoli e trovavamo nebbia in autostrada ci fermavamo in qualche hotel che aveva stanze del genere “taac”».
Come nacque il famoso «taac»?
«Lo diceva sempre un ragazzo simpaticissimo che frequentava il Derby, grosso scommettitore di cavalli: quando vinceva o le cose andavano per il verso giusto, lui diceva “taac”».
Un milanese a Roma: come si trovava?
«Non ho mai trascorso un giorno di vacanza o un weekend a Roma. Mia moglie non aveva mai accettato di trasferirsi e io facevo il pendolare, sempre con l’incognita della nebbia che non ti faceva atterrare».
Sua moglie non era gelosa di Roma?
«Non ne aveva motivi, si sentiva più a casa a Milano. Mi chiese solo una volta di fare una foto con Adriano Celentano e forse ce l’ho ancora, ma non la guardo perché mi intristisce».
I suoi amici dell’ambiente artistico?
«Paolo Villaggio, che incontravo anche per mare tra la Sardegna e la Corsica. Avevo la casa a La Maddalena, lui a Bonifacio, una casa stretta e lunga affacciata sulla falesia: ci parlavamo dalla barca al balcone, perché la roccia faceva da cassa armonica. Poi Renato Della Valle e Marcello Mastroianni».
Di cosa è fatta la milanesità?
«Puntualità, rigore, un certo attaccamento alla famiglia. Noi fratelli Pozzetto con i primi soldi abbiamo comprato la casa ai genitori».
Oggi come le sembra Milano?
«La frequento poco, mi piace ancora l’idea di viaggiare con Cochi per lavoro, scegliere l’albergo, il ristorante dove mangiare, farci una foto con la gente. Soprattutto quando sono i bambini a chiedermela, perché i miei film continuano ad andare in onda ed è come se fossi uno zio che rompe le palle tutti i giorni».
Con Cochi vi vedete ancora?
«Giovedì prossimo andremo a vedere la prima di Sister Act al Teatro Nazionale. E il Teatro Lirico di Milano ci ha cercati per ricomporre il duo e farci recitare nel suo nobile palco riaperto dopo 20 anni di restauro».
L’umorismo alla milanese.
«Raffinato, ma la nostra è una fabbrica di umorismo che è stata abbandonata. Oggi parlano sempre della morosa, del tradimento, noi discutevamo della gallina...».
Chi sono i comici oggi?
«Non li seguo molto perché hanno un umorismo che faccio fatica a seguire, ma sicuramente è colpa mia. Mi ricordano quel cliente del Derby, con 1.200 dipendenti, che a fine spettacolo mi disse: “Io non ho riso, perché? Eppure non sono un pirla, do lavoro a un sacco di gente”. Ecco, anche io penso di non essere un pirla, ma non li capisco. Un po’ come non capisco i rapper».
Nessuno la fa ridere?
«Checco Zalone: non lo conosco bene, ma è un umorista vero e ha talento, suona e canta».
Qualcuno che l’ha colpita recentemente?
«Stefano Bollani nelle sue purtroppo veloci apparizioni televisive».
La comicità femminile.
«Tra tutte preferisco la Littizzetto, soprattutto fisicamente. Riguardo alle altre... preferisco Totò».
A quali progetti sta lavorando?
«Ho una trattoria a Laveno Mombello, sulla sponda lombarda del lago Maggiore, si chiama Locanda Pozzetto, ha nove camere che guardano tutte l’acqua e un ristorante che vola alto. In più mi sono messo a fare il vino con quattro amici, il Liseiret».
E il surreale dove è finito?
«Sto scrivendo un libro, un volume in episodi, alcuni veri, altri verosimili: mi aiuta Giorgio Terruzzi, che è un giornalista bravo e colto. Io non so usare il computer, battere a macchina e neppure leggere il mio corsivo: lui mi ha preso per mano e insieme stiamo facendo qualcosa di bello e surreale».