Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2022  ottobre 07 Venerdì calendario

Biografia di Van Gogh

Vincent van Gogh nacque il 30 marzo 1852 e subito morì. L’anno successivo – stesso mese e stesso giorno – Anna Cornelia Carbentus diede alla luce un altro figlio, che ricevette il nome del fratello scomparso. Non sappiamo quanto questa circostanza abbia inciso sul carattere e sulle scelte del secondo Vincent, ma è lecito supporre che vedere una lapide con incisi il proprio nome e il giorno del proprio compleanno poté suscitare in quel bambino sentimenti contrastanti. Sentirsi il sostituto di un originale inarrivabile lo collocò sul lato oscuro dell’essere, lo rese melanconico. Nelle lettere a Theo, Vincent tornò più volte su questa costitutiva condizione di tristezza, rivendicandone la potenza generativa: «Le cose misteriose, la tristezza e la malinconia restano, ma l’eterna negazione viene controbilanciata dal lavoro positivo che in tal modo, tutto considerato, si riesce a fare».
L’olandese si inseriva così nell’antica tradizione che associava la creatività visionaria al dio dell’urna satura e della tenebrosa fecondità. Saturno è il nume dei malinconici e degli artisti, e la pittura per Vincent era una vocazione da condurre sino al martirio: «Solo così sento la vita, quando riesco a spingere a fondo il lavoro. Mentre in compagnia ne sentirei un poco meno il bisogno, o piuttosto lavorerei a cose più complesse. Ma essendo isolato, non posso far conto che sulla mia esaltazione di certi momenti, e allora mi lascio andare a delle stravaganze».
Vincent agganciava lo slancio vitale, si faceva attraversare dalla violenza della natura che lo lasciava svuotato, ma mentre dipingeva riusciva a dirottare la volontà che vuole vivere. Impugnava la tela come uno scudo da opporre alla realtà, una parete osmotica che, nel farsi, gli dischiudeva un ambiente finalmente abitabile. Per ottenere questo obiettivo doveva abbandonarsi a uno stato prossimo alla trance, un percorso ascetico che lo condusse ad assimilarsi a un monaco giapponese.
La natura però riconosce come corpo estraneo colui che, dotato di una sensibilità troppo fine, intende gettare uno sguardo sull’immensità per carpirne i segreti. I quadri di Van Gogh sono reportage dal fondo della notte, finestre sull’abisso e visioni rubate, che il pittore doveva pagare con la propria salute mentale e alle quali però non poteva rinunciare, come drogato da una sete d’assoluto. Vincent non inseguiva le forme, ma quella potenza tellurica che muove dalle viscere della terra. S’accostava pertanto all’origine del sisma e di queste scosse rimane traccia nei suoi dipinti.
Gli olivi contorti e i cipressi fiammeggianti dialogano con il moto degli astri, con il vento, con le stelle, con la strada e con gli uomini. Non c’è soluzione di continuità tra fiori, nuvole, montagne e l’andamento dei prati: il paesaggio è fluttuante, si è fatto selva minacciosa. Certo il mondo continua a funzionare, funziona per tutti gli altri. Le luci alle finestre annunciano il focolare che lui non era riuscito a ottenere, gli rammentavano la sua incapacità di costruire una famiglia. Aveva dovuto scegliere se essere part e del meccanismo o se, sia pure per pochissimo tempo, essere l’energia stessa che muove il dispositivo: scelse l’ebbrezza della totalità. Guardandosi alle spalle, in uno dei suoi momenti di lucida autoironia, sintetizzò quella decisione in poche parole: «per attingere l’alta nota gialla che ho raggiunto quell’estate, era necessario salire un po’ su di giri».
Aveva trasformato la pittura in oro e i contadini in icone, giunto sull’orlo del baratro era pronto a versare il costo della trasmutazione. La vita biologica, a quell’altezza, era divenuta l’appendice di un furore esistenziale impossibile da mantenere e al quale era impossibile rinunciare. Aveva avuto il suo fuoco e poteva lasciarsi il sud alle spalle, si attestò a Auvers-sur-Oise dove, qualche mese prima di farla finita, incontrò il dottor Gachet.
Il ritratto del dottor Gachet (1890) è un autoritratto dissimulato, composto da un uomo che ha raggiunto la consapevolezza di non poter più guarire. Per una volta Vincent lavora con calma, non deve farsi sismografo della natura, ma, come ha scritto Giorgio Bedoni, si mette a dare forma meditata al tipo malinconico. Come nell’angelo di Albrecht Dürer, come nel ritratto semisatirico che Raffaello farà del suo ammirato rivale Michelangelo nellaScuola d’Atene,come nel “pensieroso” Lorenzo alla Sagrestia Nuova, Gachet ha la mano alla guancia. Colmi di stralunata tristezza, gli occhi ricordano quelli del caricaturale ritratto anteposto alla vita vasariana di Pontormo: medesima trasandatezza, abito scomposto e volto corrucciato.
Il veggente è cieco, zoppo o pazzo, c’è qualcosa di ridicolo nella smania d’infinito ed è l’essenza tragica del sublime. Ambizione sottratta al tempo, così come l’arte di Van Gogh.