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 2022  ottobre 07 Venerdì calendario

Intervista ad Alice Zago


Mai lamentarsi dei tempi della giustizia italiana. La prima richiesta d’intervista ad Alice Zago, unica italiana head unified team (capo della squadra unificata) presso la Corte penale internazionale dell’Aia, risale al 28 aprile. Solo il 18 settembre le hanno concesso il nullaosta per conferire con il Corriere della Sera. Trascorsa qualche altra settimana, ha accettato di parlare, a condizione che venisse premessa la seguente formula di rito: «Qualunque opinione esprimerò è puramente personale e non riflette in alcun modo la posizione dell’International criminal court». Oltre cinque mesi di prudenza forse non guastano, essendoci di mezzo il tribunale sovranazionale che indaga sui genocidi, sui crimini di guerra e su quelli contro l’umanità. Nel frattempo, Paul Gicheru, il principale imputato perseguito da Zago, accusato di aver corrotto e intimidito testimoni che avrebbero potuto inguaiare l’attuale presidente del Kenya, William Ruto, ha tirato le cuoia proprio il giorno prima del nostro colloquio: «Il processo era terminato a maggio. Stavo aspettando la sentenza. Dopodiché, se dichiarato colpevole, avrei formulato la richiesta della pena, come avviene nella procedura anglosassone». Quanti anni di galera? «Non mi sento di poterle rispondere. È morto. Quindi adesso è innocente».
Abituati alla loquacità delle Procure italiche, si resta basiti di fronte al riserbo di questa donna che ha appena compiuto 48 anni e che non vuole essere chiamata magistrata, pur rivestendo nell’Icc il ruolo svolto nel nostro Paese dal pubblico ministero e, quando va in udienza, del sostituto procuratore. Eppure da lei dipendono una decina fra magistrati, investigatori, analisti ed esperti in rogatorie internazionali. Alice Zago è cresciuta a Venezia e a Mostaganem, città algerina dove i genitori Carlo e Daniela hanno lavorato come architetti. Dopo la loro separazione, ha vissuto a New York e a Santiago del Cile con la madre, per lungo tempo funzionaria dell’Onu.
Poteva diventare una toga in Italia.
«Infatti m’iscrissi a Giurisprudenza alla Cattolica di Milano. La facoltà migliore. Lo feci per ribellarmi ai miei, simpatizzanti dell’estrema sinistra».
Lo sono ancora?
«Le etichette sbiadiscono».
Era già attratta dalla magistratura?
«Da Giovanni Falcone e da Paolo Borsellino. E dal processo Enimont. Ero in aula quando Antonio Di Pietro interrogò Arnaldo Forlani. Dopo un anno di studi, passai alla Statale e mi laureai in diritto greco antico con Eva Cantarella. Fui conquistata dalla professoressa sentendola parlare dello scudo di Achille. La tesi verteva su un’orazione di Demostene contro la prostituta Neera».
Un cambio di rotta mica da poco.
«Poi avrei voluto sostenere il concorso per la magistratura. Ma tre anni di attesa mi sembravano un’eternità. Così prevalse il mio desiderio di fuga dall’Italia».
Meta?
«Belgio, con l’Ong Non c’è pace senza giustizia. Stage a Bruxelles accanto a Emma Bonino, Marco Cappato e altri radicali del Parlamento europeo. Nel contempo, master in diritto a Lovanio».
E poi?
«In missione con le Nazioni Unite in Guatemala. Quasi tre anni fra massacri dei militari e rivolte degli indios affamati, che linciavano i latifondisti».
All’Onu la raccomandò sua madre?
«No, vinsi un concorso. In seguito raggiunsi il mio compagno a New York e tornai a lavorare da lì per l’Ong. Fornivamo assistenza giuridica e legale a Timor Est, resosi indipendente dall’Indonesia».
Quando è stata ammessa nella Corte penale internazionale?
«Nel 2004, con un bando per titoli ed esami. Fra i requisiti richiesti c’erano capacità analitiche e perfetta conoscenza dell’inglese. Entrai come investigatrice».
Che esperienza vantava in materia?
«Avevo indagato sulle violazioni dei diritti umani in Guatemala».
Quali grandi criminali ha scovato?
«Più sono grandi e meno sono noti».
Il suo primo incarico all’Aia quale fu?
«Mi spedirono in Congo, provincia di Ituri, dove la lotta fra Hema e Lendu era fomentata per il controllo delle miniere di oro e cobalto. Io mi occupavo di stupri e arruolamento di bambini soldato, altri tre colleghi di stragi etniche, omicidi, torture e mutilazioni. Alloggiavamo in un container dell’Onu. Portammo alla sbarra Thomas Lubanga Dyilo, leader dell’Union des patriotes congolais. Fu condannato a 14 anni di reclusione».
Che faceva di brutto Lubanga Dyilo?
«Reclutava i dodicenni e li drogava. Una combattente di 14 anni era incinta, quando la interrogai. Sono le situazioni in cui il mio lavoro diventa difficile».
In quei frangenti che fa?
«Eh, ogni tanto si piange. Non si dovrebbe, ma l’emozione è troppo forte».
Fu l’esperienza più drammatica?
«Sì, insieme con quella di human right officer dell’Onu nella giungla del Guatemala, dopo gli accordi di pace che avevano posto fine alla guerra civile. Avevo appena 24 anni. Con me c’erano un poliziotto, un medico forense, un genetista, un antropologo e un interprete. Il nostro compito era di scoprire le fosse comuni e dissotterrare le salme. Il lezzo della morte c’impregnava i vestiti».
Aprite i fascicoli d’ufficio o vi deve arrivare una segnalazione?
«Entrambe le eventualità. Le denunce però non possono arrivare dai privati: solo dagli Stati o dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite».
L’Icc è riconosciuta da tutti gli Stati?
«No, solo da 123. Non aderiscono 42 Paesi, fra cui Stati Uniti, Cina, Russia, India, Israele, Egitto, Iraq, Libia».
Quindi, se si ripresentasse un caso Eichmann, Israele non potrebbe chiedervi di processare il criminale nazista.
«No, finirebbe a giudizio in Germania, dove ebbero luogo i misfatti. La Corte penale internazionale interviene quando uno Stato non può o non vuole perseguire un crimine contro l’umanità».
Avete ricevuto denunce a carico di Vladimir Putin per le barbarie commesse dagli invasori russi in Ucraina?
Ho pianto con i bambini soldato
del Congo: non si dovrebbe...
La giustizia è fatta di sfumature
Vorrei poter dirigere «Vogue»
«Non sono autorizzata a rispondere».
Non potete procedere d’ufficio?
«C’è un’indagine condotta da un nostro procuratore, aperta a marzo».
Potreste processare e condannare in contumacia il presidente russo?
«No. L’imputato dev’essere in aula».
Quale aula?
«Qui all’Aia, nella sede dell’Icc, ne abbiamo tre per celebrare i processi».
Che durano quanto?
«Compresa l’istruttoria? Dipende dalla complessità del caso e dal numero di crimini. Con Gicheru siamo arrivati a conclusione in tre-quattro mesi. Quando va per le lunghe, due anni al massimo».
Com’è possibile che fra tribunale, appello e Cassazione in Italia occorrano 1.545 giorni, cioè circa 4 anni e 3 mesi?
«Non mi faccia parlare di fatti sui quali non sono informata».
Non ha la cittadinanza italiana?
«Ce l’ho, ma non appartengo alla magistratura del mio Paese di origine. Immagino che vi siano molteplici ragioni a spiegare i ritardi, che vanno dal volume di attività alle carenze di organico».
La pena più severa inflitta dall’Icc?
«Trent’anni di reclusione. Non irroghiamo l’ergastolo».
Il condannato dove la sconta?
«Nel centro di detenzione qui all’Aia oppure nel Paese di appartenenza. Abbiamo accordi bilaterali in tal senso con molti Stati, soprattutto scandinavi».
Ha mai ricevuto minacce di morte?
«Di morte e di violenza, in Congo, da parte dell’esponente di un gruppo armato. Ma non le ho mai prese sul serio. Non mi reputo una persona importante».
Non ha mai rischiato la pelle?
«Solo una volta, in Guatemala, ma per tutt’altri motivi. Con il cibo o con l’acqua mi entrò in circolo un’ameba, che stava distruggendomi l’intestino. Fui salvata dai medici cubani. Sono molto preparati. In America Latina ne trovi sempre qualcuno nei luoghi più sperduti, quelli di cui persino Dio sembra essersi dimenticato. Fui trasportata a Città del Messico e da lì a New York, dove i sanitari dell’Onu mi tennero in cura per tre anni».
Non ha la scorta?
«No, nessuno di noi ce l’ha. Solo il procuratore capo».
C’è un magistrato al quale s’è ispirata?
«Sì, ma è poco noto. Si chiama Ben Gumpert, britannico. Era avvocato della Corte penale internazionale. Ora è giudice alla Crown Court a Londra, la Corte della Corona. Ha una capacità di controllo e un’eloquenza che soggiogano».
Da similpubblico ministero quale carriera la attende?
«Da grande mi piacerebbe diventare la direttrice di Vogue al posto di Anna Wintour. Per divertirmi un po’». (Ride).
Il diavolo veste Prada.
«Confesso di avere una smodata passione per la moda e per l’interior design, insomma per tutto ciò che è frivolo ma assolutamente necessario nella vita».
Crede che esista la giustizia terrena?
«Io credo che esista soltanto la giustizia terrena».
Quella divina no?
«Soggettivamente non penso che ci sia. Posso solo occuparmi di ciò che conosco. Anche se vorrei che esistesse una giustizia ultraterrena».
E in nome di chi va amministrata?
«Di tutti noi».
«Occhio per occhio e dente per dente», come detta l’«Esodo», è giustizia?
(Ci pensa). «No, non sempre. Anzi, direi proprio di no. Ho imparato che non esistono mai solo bianco e nero. Ci sono unicamente moltissime sfumature. La capacità di coglierle si chiama giustizia».