Federico Rampini per il “Corriere della Sera”, 7 ottobre 2022
GRANDI DIVI, ENORMI PARACULI – FEDERICO RAMPINI SPERNACCHIA LE STAR DI HOLLYWOOD E LE LORO IPOCRISIE: “ALLE CELEBRITY STA STRETTO IL MESTIERE DI ATTRICI E ATTORI. VOGLIONO ESSERE CONSIDERATE MILITANTI POLITICHE, PALADINE PER LA SALVEZZA DEL PIANETA O DELLE MINORANZE” – DA JULIA ROBERTS TARDO-FEMMINISTA CHE VUOLE FARSI PERDONARE PER “PRETTY WOMAN” A KEVIN COSTNER REPUBBLICANO PENTITO FINO A ROBERT REDFORD CHE MORALEGGIA RICORDANDO LA GIOVINEZZA E OGGI SI DEFINISCE UN “FILANTROPO A TEMPO PIENO”. ALMENO GEORGE CLOONEY SI È PENTITO…
«Ma noi due non ci siamo già incontrati da qualche parte?» Sono passati dieci anni da quando Julia Roberts mi ipnotizzò con quella battuta. Era nella suite dell'hotel Casa del Mar dove avevamo appuntamento per l'intervista, a Santa Monica in California. Non mi aspettavo il vecchio trucco con cui generazioni di maschi hanno agganciato una donna sola al bar o a un party. La Roberts, «il sorriso più famoso di Hollywood» (una leggenda sosteneva che quella bocca smagliante fosse assicurata, come le gambe di Cristiano Ronaldo), l'aveva sicuramente sperimentata su altri giornalisti prima di me. Spiazzato, l'intervistatore è in ginocchio subito. Avevo di fronte una grande professionista delle interviste, oltre che della recitazione.
In 22 anni di carriera americana, cominciata in California, mi sono occupato di politica, economia, relazioni internazionali. Le puntate a Hollywood le ho vissute come un piacevole diversivo da affrontare con umiltà: intervistando le star precisavo di non essere un esperto di cinema. Così scoprii a mia volta un trucco. Alle celebrity dello spettacolo sta stretto il mestiere di attrici e attori. Vogliono essere considerate militanti politiche, sociali, ambientaliste, paladine per la salvezza del pianeta o delle minoranze. La 54enne Roberts fu una eroina anti-inquinamento ne Il Rapporto Pelikan (1993) ed Erin Brockovich (2000). Nella costruzione della sua immagine i ruoli impegnati hanno bilanciato i film che l'hanno resa milionaria come sex symbol, vedi la escort di Pretty Woman del 1990.
Del nostro incontro a Santa Monica nel 2012 ricordo i messaggi impegnati del remake politicamente corretto di un classico di Walt Disney. «È la versione femminista di Biancaneve», mi disse la Roberts che nel film recitava la parte della regina cattiva: impegnata in una competizione feroce con la figliastra adolescente per strapparle il maschio-oggetto, il Principe Azzurro. Noi uomini in quel film siamo idioti da manipolare. Julia ci trattava con magnanimità: «Da parte del maschio ammettere la propria debolezza è segno di maturità».
Eravamo all'apice del femminismo americano, le ragazze surclassavano sistematicamente i maschi nelle classifiche accademiche. «Certo che le ragazze vanno sempre meglio», confermò, per aggiungere che la preoccupava l'offensiva della destra conto il diritto all'aborto.
Repubblicano pentito Altra star «bianca e di mezza età», altro esemplare del politicamente corretto che estraggo dalle mie frequentazioni hollywoodiane: Kevin Costner. Lo intervistai nel 2016 in occasione di un bel film antirazzista, Il diritto di contare. Ispirato da una storia vera, quella di tre donne afroamericane, campionesse di calcolo matematico arruolate dalla Nasa agli albori della gara per la conquista dello spazio, ma umiliate nell'America segregazionista e misogina dei primi anni Sessanta.
«Tutto risale alla nascita di questa nazione, fondata sullo schiavismo, da cui oggi ereditiamo dei problemi giganteschi», mi disse Costner, riprendendo un tema caro al movimento Black Lives Matter che otto anni fa stava acquistando un'egemonia culturale con la Critical Race Theory (secondo cui le istituzioni americane sono tuttora impregnate dell'eredità schiavista). Repubblicano pentito, Costner che oggi ha 67 anni da giovane tifava per il leader conservatore Ronald Reagan; nel 2008 e nel 2012 appoggiò le due campagne elettorali di Barack Obama.
Gran parte dell'intervista lui la dedicò al suo impegno ambientalista: «Ho investito in una società che ripulisce gli oceani dalle maree nere degli incidenti petroliferi. Il mio interesse si estende all'alimentazione umana, come possiamo cambiarla per vivere meglio e rispettare l'ambiente». Mentre elencava le sue missioni progressiste allineate con l'agenda Obama, pensavo alla sua giovinezza repubblicana.
Ci fu un'epoca in cui non era scontata l'egemonia della sinistra a Hollywood, quando la destra nel mondo dello spettacolo poteva contare su campioni come John Wayne, Shirley Temple, James Stewart, Charlton Heston, Clint Eastwood, fino ad Arnold Schwarzenegger. I progressisti alla Jane Fonda, Paul Newman e Warren Beatty erano l'opposizione, la contro-cultura. Da almeno un ventennio i rapporti di forze si sono ribaltati in modo drastico, fino all'ostracismo contro i conservatori. Oggi la Walt Disney produce cartoni animati dove dominano le minoranze sessuali, le eroine ed eroi devono essere di colore o immigrati.
Cena imbarazzante Un altro dei miei incontri hollywoodiani fu con George Clooney a Pasadena nel 2019. Per lui la politica è una passione ereditaria, suo padre Nick era un reporter televisivo. Il più bel film diretto da Clooney è Good Night and Good Luck, la storia vera dell'anchorman della Cbs Edward Murrow che negli anni Cinquanta si schierò contro la «caccia alle streghe» istigata dal senatore Joseph McCarthy, la persecuzione di chi era sospettato di simpatie comuniste.
Quando Clooney ha capito che ero un corrispondente accreditato alla Casa Bianca, addentro alla politica prima che al cinema, ha dimenticato di dover promuovere la serie tv Comma 22 , la ragione del nostro incontro. Mancava un anno alla fine del mandato di Donald Trump e Clooney ne approfittò per una puntata nella politica italiana: «Il prototipo di Trump lo avete inventato voi, l'originale fu Silvio Berlusconi, populista e spudoratamente ricco».
Poi l'affondo contro il trumpismo: «Vedo all'opera una sorta di crisi isterica delle masse. Per ritrovare una sanità mentale, sarebbe bene che l'America desse l'esempio. Abbiamo bisogno di un presidente che rappresenti il meglio dei nostri valori morali. E la smetta di trattare gli immigrati come terroristi».
Allora Clooney era reduce di un piccolo scandalo tipico della Hollywood radicale. Lui e la seconda moglie anglo-libanese Amal Alamuddin, celebre avvocatessa per i diritti umani, avevano fatto da anfitrioni per due eventi a sostegno della campagna elettorale di Hillary Clinton. Le loro cene per la raccolta fondi a San Francisco e a Los Angeles avevano biglietti d'ingresso fino a 350.000 dollari a persona.
Un episodio tipico di quel connubio fra star milionarie del cinema, miliardari di Big Tech o dell'alta finanza, e partito democratico. Di che confermare i sospetti delle classi lavoratrici sulla deriva dei democratici verso le élite. In seguito Clooney fece autocritica definendo «soldi osceni» quelli che aveva raccolto per la Clinton.
Pensionato del cinema Un pioniere delle generazioni di star politicamente corrette è Robert Redford, oggi 86enne. Il nostro incontro otto anni fa cominciò con una sua dichiarazione d'amore per l'Italia, e commossi ricordi di giovinezza: studiava arte a Firenze. Poi volle sottolineare le sue credenziali antiche: «Il mio impegno ambientalista risale agli anni Settanta. In alcuni Stati del West, dalla California allo Utah, delle aziende energetiche volevano costruire ben undici centrali a carbone. Riuscii a organizzare una protesta con l'appoggio di Dan Rather, il leggendario anchorman della Cbs».
Redford da giovane fu il reporter investigativo Bob Woodward in Tutti gli uomini del presidente sullo scandalo del Watergate. Quando lo intervistai Trump stava lottando per la sua prima nomination repubblicana e l'attore era angosciato da quella che definiva «la destra più estremista di tutti i tempi». Parlammo del mondo dei media, era uscito Truth dove Redford interpretava proprio la parte di Rather, ma in una vicenda senza lieto fine: lo scandalo che doveva affondare George Bush per gli imbrogli con cui aveva schivato il servizio militare durante la guerra del Vietnam, e invece aveva distrutto la carriera dell'anchorman.
Redford fece atto di umiltà: «Devo confessarle che non uso neppure un computer, tantomeno Facebook». Si schernì dicendosi poco competente per parlare del nuovo universo dei media «irriconoscibile rispetto agli anni di Nixon e anche di Bush». Si disse angosciato per la scomparsa di figure arbitrali, al di sopra delle parti, «come Rather o Walter Cronkite, quegli anchormen che personificavano The News, incarnavano una credibilità delle notizie, erano fonti autorevoli e rispettate».
Oggi, pensionato dal cinema, Redford preferisce essere «attivista e filantropo» a tempo pieno. Di recente Clooney, ormai 61enne, ha di nuovo confessato qualche dubbio sugli effetti delle crociate politiche hollywoodiane, ammettendo che possono aver contribuito alla polarizzazione estrema dell'America: «L'intera nazione, negli ultimi cinque anni è stata immersa nell'odio e nella rabbia, e a volte anch' io ho fatto la mia parte».
È un barlume di autocritica raro di questi tempi. Un'eccezione, in un panorama ideologico del mondo dello spettacolo e della cultura dove domina il conformismo. Il pensatore comunista Antonio Gramsci sarebbe incuriosito dalla «egemonia culturale» che la sinistra estrema ha saputo costruire nella Mecca mondiale del cinema. Karl Marx si congratulerebbe con il suo motto: «Ben scavato, vecchia talpa».