Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2022  ottobre 06 Giovedì calendario

Intervista alla scrittrice Jhumpa Lahiri

Con il suo libro d’esordio, nel 1999, Jhumpa Lahiri vinse il Pulitzer. Caso raro, perché L’interprete dei malanni è una raccolta di racconti. Oltre vent’anni (e molti racconti, romanzi, antologie, tutti pubblicati in Italia da Guanda) dopo, questa scrittrice, nata a Londra da genitori bengalesi, cresciuta negli Stati Uniti e ormai da dieci anni divisa fra Roma e New York (ora insegna al Barnard College della Columbia, prima era a Princeton), ha scritto Racconti romani (Guanda, pagg. 254, euro 17): un doppio omaggio, alla capitale («si può dire che sia la mia città, anche se a lungo ho fatto avanti e indietro... ma ora ho un anno sabbatico» dice, con una voce elegante quanto la sua persona) e alla raccolta di Alberto Moravia, uscita nel ’54. Ne parlerà a Gallarate, al festival Duemilalibri, venerdì 14 ottobre (ore 21).
Jhumpa Lahiri, che Roma è la «sua» Roma?
«Una Roma complessa, non facile, strepitosa, problematica. Ha tante facce, tanti strati... La città ci sfugge, e sfugge a tutti: non si può definire. Non puoi descrivere Roma in un gesto solo. Per questo, il tentativo di Moravia di farlo attraverso i racconti è geniale: ha raggiunto una prospettiva molto efficace per capire la complessità della città e dei romani. Io ho seguito il suo esempio».
La Roma di oggi rispetto a quella di Moravia?
«È ben diversa. Lui raccontava molto anche uno strato sociale, popolare: io prendo questa vena e la esploro, per esempio vado nelle cucine delle trattorie e scopro chi cucina davvero la pasta, chi non vedi ma c’è, e sta cucinando per te...»
Di chi si tratta?
«Persone che vengono da fuori e hanno vite precarie a Roma, e non solo per una questione di classe sociale».
Non si sentono a casa?
«Vai a Roma e sei romano, un po’ come ti succede quando vai a New York, e questo perché la città è così forte che ti ingloba, ti dà un’identità; ma vedo anche le tensioni che ci sono, per esempio fra i romani di una certa età e posizione e chi è lì per lavorare, mettere nuove radici, creare una famiglia...»
Come le vede?
«Sono dieci anni che osservo questo incrocio, da una posizione privilegiata diciamo: sono sempre attenta a chi vive ai margini e non parla, perché non è a suo agio a parlare, e con molti di loro condivido una lingua, il bengalese, per cui posso chiedere, fare domande. E poi noto le dinamiche, le mamme al parco, i giovani, i loro gruppi, come quelli sulla scalinata».
La scalinata, che è anche il titolo di un racconto, è centrale nel libro.
«Sì. È quella che collega Trastevere a Monteverde Vecchio: abito lì vicino e la faccio venticinque volte al giorno... La scalinata è l’organo principale del libro: il cuore o, se vogliamo, lo stomaco, che credo sia la vera misura del corpo».
Come funziona?
«È il ventre che raccoglie ogni tipo di personaggio: chi è di passaggio, chi è nato/vissuto/morto lì, chi ci vive per un paio d’anni, chi si lamenta del fatto che il mondo non sia più come una volta, chi vorrebbe appartenere ma non può, o non riesce... Gli altri racconti sono un affresco, la scalinata è qualcosa in mezzo alla sala: un luogo di passaggio, ma molto vissuto. Ci sono tanti giovani, perfino una troupe che gira un film».
Ci sono anche le signore romane. Si è trovata subito bene?
«Sì e no. Una parte di me si sente totalmente nel mare giusto; eppure, anche no. Sono sempre in bilico...»
Nei suoi racconti ci sono storie dure, ma scritte senza retorica o ideologia.
«Non scrivo con ideologia. Anche qui seguo Moravia, che diceva che l’ideologia non dovrebbe far parte della letteratura. Certamente tu, come scrittore, puoi avere un’ideologia, e Moravia l’aveva, come anche io, da cittadina del mondo, non sono indifferente a ciò che accade; ma nella scrittura esploro altre cose, l’anima di un personaggio, il suo mondo interiore e, in questo, l’ideologia non c’entra».
Che tipo di esplorazione è?
«Come scrittore non puoi giudicare: devi osservare, interpretare, decifrare, mettere sotto una luce qualcosa che, di solito, non vediamo. Uno scrittore decide: mi soffermo qui, cerco di scavare e di dedicare un po’ di attenzione a una certa persona, vera o finta che sia».
Incredibilmente, da anni scrive in italiano.
«È un caso, una mossa insolita. Ho iniziato un giorno nel diario e, da lì, ne è sorta una esigenza sorprendente che, piano piano, mi ha conquistato. Ho capito che in italiano riesco a raggiungere una parte di me che non raggiungo in inglese: mi sento più libera, più coraggiosa e in grado di sperimentare ma, allo stesso tempo, anche titubante. Un mix eccitante».
Una svolta?
«Una nuova lingua è un filtro e uno strumento insieme, ma l’italiano mi ha aperto un portone importante: cercavo una nuova chiave ed è stata una nuova lingua, questa lingua».
L’ultimo racconto è intitolato Dante Alighieri e sembra autobiografico.
«Ci sono elementi della mia vita, anche se non del tutto. Ho osato, certo, prima col titolo e poi con Dante in chiusura... Ma già il mio libro Dove mi trovo era un dialogo con Dante, il suo titolo è il primo verso dell’Inferno, celato: dove mi trovo?, dove vado?, come procedo? È quella questione lì, esistenziale. E poi Dante è a cavallo fra diverse lingue, culture, epoche, e in lui c’è l’esilio, che è il mio tema».
Esilio in che senso?
«Non sono importanti tanto i luoghi per me, quanto la condizione dell’esilio, dello straniamento: tutti ci sentiamo così, tutti. Nei miei racconti, anche quelli che, anagraficamente, sono romani, si sentono completamente fuori luogo».
Scrive sia romanzi, sia racconti. Come sceglie?
«Ascolto l’essenza della storia e poi cerco di trovare l’involucro giusto. Credo molto nel racconto come forma, che non considero affatto minore rispetto al romanzo: leggi un racconto per avere una certa esperienza, un romanzo per un altro impatto».
Che cosa ama del racconto?
«È più vicino alla poesia: puoi gestire meglio la lingua, con maggior precisione. E il lettore non viene interrotto, può leggerlo in un’oretta, e questo mi piace molto. Leggo racconti da sempre, li amo, ho curato anche una antologia di quaranta autori italiani per Guanda e credo che i racconti siano stati molto importanti, anche se, oggi, spesso sono ritenuti desueti, come forma».
Il racconto è bistrattato?
«Dappertutto, anche in America. Tutti vogliono un romanzo perché pensano sia più importante, ma è folle, ridicolo... Un romanzo può nascondere i difetti molto meglio, un racconto no: o è riuscito o fallisce, e te ne rendi conto subito. È molto più esigente. Infatti, molti autori hanno paura a scrivere racconti. È una forma che va amata, rispettata e difesa, contro un atteggiamento che è scollato dalla realtà della storia della letteratura».