il Giornale, 6 ottobre 2022
Intervista alla scrittrice Jhumpa Lahiri
Con il suo libro d’esordio, nel 1999, Jhumpa Lahiri vinse il Pulitzer. Caso raro, perché L’interprete dei malanni è una raccolta di racconti. Oltre vent’anni (e molti racconti, romanzi, antologie, tutti pubblicati in Italia da Guanda) dopo, questa scrittrice, nata a Londra da genitori bengalesi, cresciuta negli Stati Uniti e ormai da dieci anni divisa fra Roma e New York (ora insegna al Barnard College della Columbia, prima era a Princeton), ha scritto Racconti romani (Guanda, pagg. 254, euro 17): un doppio omaggio, alla capitale («si può dire che sia la mia città, anche se a lungo ho fatto avanti e indietro... ma ora ho un anno sabbatico» dice, con una voce elegante quanto la sua persona) e alla raccolta di Alberto Moravia, uscita nel ’54. Ne parlerà a Gallarate, al festival Duemilalibri, venerdì 14 ottobre (ore 21).
Jhumpa Lahiri, che Roma è la «sua» Roma?
«Una Roma complessa, non facile, strepitosa, problematica. Ha tante facce, tanti strati... La città ci sfugge, e sfugge a tutti: non si può definire. Non puoi descrivere Roma in un gesto solo. Per questo, il tentativo di Moravia di farlo attraverso i racconti è geniale: ha raggiunto una prospettiva molto efficace per capire la complessità della città e dei romani. Io ho seguito il suo esempio».
La Roma di oggi rispetto a quella di Moravia?
«È ben diversa. Lui raccontava molto anche uno strato sociale, popolare: io prendo questa vena e la esploro, per esempio vado nelle cucine delle trattorie e scopro chi cucina davvero la pasta, chi non vedi ma c’è, e sta cucinando per te...»
Di chi si tratta?
«Persone che vengono da fuori e hanno vite precarie a Roma, e non solo per una questione di classe sociale».
Non si sentono a casa?
«Vai a Roma e sei romano, un po’ come ti succede quando vai a New York, e questo perché la città è così forte che ti ingloba, ti dà un’identità; ma vedo anche le tensioni che ci sono, per esempio fra i romani di una certa età e posizione e chi è lì per lavorare, mettere nuove radici, creare una famiglia...»
Come le vede?
«Sono dieci anni che osservo questo incrocio, da una posizione privilegiata diciamo: sono sempre attenta a chi vive ai margini e non parla, perché non è a suo agio a parlare, e con molti di loro condivido una lingua, il bengalese, per cui posso chiedere, fare domande. E poi noto le dinamiche, le mamme al parco, i giovani, i loro gruppi, come quelli sulla scalinata».
La scalinata, che è anche il titolo di un racconto, è centrale nel libro.
«Sì. È quella che collega Trastevere a Monteverde Vecchio: abito lì vicino e la faccio venticinque volte al giorno... La scalinata è l’organo principale del libro: il cuore o, se vogliamo, lo stomaco, che credo sia la vera misura del corpo».
Come funziona?
«È il ventre che raccoglie ogni tipo di personaggio: chi è di passaggio, chi è nato/vissuto/morto lì, chi ci vive per un paio d’anni, chi si lamenta del fatto che il mondo non sia più come una volta, chi vorrebbe appartenere ma non può, o non riesce... Gli altri racconti sono un affresco, la scalinata è qualcosa in mezzo alla sala: un luogo di passaggio, ma molto vissuto. Ci sono tanti giovani, perfino una troupe che gira un film».
Ci sono anche le signore romane. Si è trovata subito bene?
«Sì e no. Una parte di me si sente totalmente nel mare giusto; eppure, anche no. Sono sempre in bilico...»
Nei suoi racconti ci sono storie dure, ma scritte senza retorica o ideologia.
«Non scrivo con ideologia. Anche qui seguo Moravia, che diceva che l’ideologia non dovrebbe far parte della letteratura. Certamente tu, come scrittore, puoi avere un’ideologia, e Moravia l’aveva, come anche io, da cittadina del mondo, non sono indifferente a ciò che accade; ma nella scrittura esploro altre cose, l’anima di un personaggio, il suo mondo interiore e, in questo, l’ideologia non c’entra».
Che tipo di esplorazione è?
«Come scrittore non puoi giudicare: devi osservare, interpretare, decifrare, mettere sotto una luce qualcosa che, di solito, non vediamo. Uno scrittore decide: mi soffermo qui, cerco di scavare e di dedicare un po’ di attenzione a una certa persona, vera o finta che sia».
Incredibilmente, da anni scrive in italiano.
«È un caso, una mossa insolita. Ho iniziato un giorno nel diario e, da lì, ne è sorta una esigenza sorprendente che, piano piano, mi ha conquistato. Ho capito che in italiano riesco a raggiungere una parte di me che non raggiungo in inglese: mi sento più libera, più coraggiosa e in grado di sperimentare ma, allo stesso tempo, anche titubante. Un mix eccitante».
Una svolta?
«Una nuova lingua è un filtro e uno strumento insieme, ma l’italiano mi ha aperto un portone importante: cercavo una nuova chiave ed è stata una nuova lingua, questa lingua».
L’ultimo racconto è intitolato Dante Alighieri e sembra autobiografico.
«Ci sono elementi della mia vita, anche se non del tutto. Ho osato, certo, prima col titolo e poi con Dante in chiusura... Ma già il mio libro Dove mi trovo era un dialogo con Dante, il suo titolo è il primo verso dell’Inferno, celato: dove mi trovo?, dove vado?, come procedo? È quella questione lì, esistenziale. E poi Dante è a cavallo fra diverse lingue, culture, epoche, e in lui c’è l’esilio, che è il mio tema».
Esilio in che senso?
«Non sono importanti tanto i luoghi per me, quanto la condizione dell’esilio, dello straniamento: tutti ci sentiamo così, tutti. Nei miei racconti, anche quelli che, anagraficamente, sono romani, si sentono completamente fuori luogo».
Scrive sia romanzi, sia racconti. Come sceglie?
«Ascolto l’essenza della storia e poi cerco di trovare l’involucro giusto. Credo molto nel racconto come forma, che non considero affatto minore rispetto al romanzo: leggi un racconto per avere una certa esperienza, un romanzo per un altro impatto».
Che cosa ama del racconto?
«È più vicino alla poesia: puoi gestire meglio la lingua, con maggior precisione. E il lettore non viene interrotto, può leggerlo in un’oretta, e questo mi piace molto. Leggo racconti da sempre, li amo, ho curato anche una antologia di quaranta autori italiani per Guanda e credo che i racconti siano stati molto importanti, anche se, oggi, spesso sono ritenuti desueti, come forma».
Il racconto è bistrattato?
«Dappertutto, anche in America. Tutti vogliono un romanzo perché pensano sia più importante, ma è folle, ridicolo... Un romanzo può nascondere i difetti molto meglio, un racconto no: o è riuscito o fallisce, e te ne rendi conto subito. È molto più esigente. Infatti, molti autori hanno paura a scrivere racconti. È una forma che va amata, rispettata e difesa, contro un atteggiamento che è scollato dalla realtà della storia della letteratura».