Corriere della Sera, 6 ottobre 2022
Intervista a Sandro Boscaini, Mister Amarone
M ister Amarone, Sandro Boscaini delle cantine Masi, è il vignaiolo che ha reinventato il grande rosso della Valpolicella. Non vanta titoli nobiliari come altri discendenti delle storiche famiglie del vino italiano. Ma ha una carriera ricca di primati: l’ultimo sarà celebrato il 14 ottobre, la duecentocinquantesima vendemmia. «La mia storia non inizia da un castello, è una storia contadina», dice. Ha acquistato vigneti in tutta Italia, e anche in Argentina. Ha 84 anni, lavora da quando è diventato maggiorenne, non vuole ritirarsi. A casa beve solo alla domenica, Lambrusco, un omaggio alla moglie originaria di Mantova. Ha fatto scoprire il suo vino a centinaia di personaggi, da Bill Gates a Luciano Pavarotti. Quello che l’ha stupito di più è stato il tenore Andrea Bocelli, «perché è un ottimo sommelier».
Qual è il suo primo ricordo?
«Avevo 4 anni, l’uva veniva fatta appassire al terzo piano, sotto c’era la cantina. In mezzo dormivamo noi, come in un sandwich d’uva. Con mio fratello Sergio salivamo di nascosto per prendere i chicchi con le macchie bianche, i più dolci. Una mattina si sentivano molte voci, erano gli uomini che salivano a piedi scalzi, perché la zia non voleva sporcassero, venivano a prendere l’uva appassita».
Potevate andare a giocare in cantina?
«Mia zia ci vietava di andarci con la merenda. Eppure usavamo la cantina come frigorifero, c’erano i salami appesi. Ho impiegato anni a capire il perché: le briciole di pane in una botticella potevano far partire la fermentazione».
Come veniva venduto il vino?
«Nella casa di mio nonno, dove ora ci sono gli uffici, i clienti arrivavano dalla Lombardia, dalla Svizzera e dal Tirolo. Compravano fusti da 700 litri: firmavano le botti per fermarle. Rimanevano anche 4-5 giorni a casa del nonno, a giocare a carte e a mangiare con noi, era un lungo rito. Poi arrivavano i loro camion. Noi davamo le etichette da incollare, il vino veniva imbottigliato a Brema o Amburgo».
Perché suo padre Guido la voleva farmacista?
«Era molto deluso dal fatto che negli anni 60 molti vendevano i vigneti, pensava che avrebbero vinto quelli che fanno il vino senza curare le vigne. Voleva per me una vita lontana dalla campagna».
Lei ha disobbedito.
«Abbiamo trovato un compromesso: mi sono iscritto a Economia e commercio, alla Cattolica di Milano, mi sono laureato con una tesi sui canali distributivi del vino italiano».
Quando ha iniziato a lavorare?
«Prima della laurea, alla fiera di Verona. Tutti andavano a vedere le grandi macchine trebbiatrici alla fiera dell’agricoltura. Nessuno visitava i padiglioni 41 e 42, quelli del vino. Così ci siamo inventati le Giornate del vino, nel 1967, che poi sono diventate l’attuale Vinitaly. Credo di essere l’unico produttore ad aver partecipato a tutte le edizioni».
L’azienda di famiglia come si chiamava?
«Boscaini Paolo e figli. Dopo la laurea dissi a mio padre che volevo fare qualcosa di nuovo, con mio fratello Sergio. Presi il Vajo dei Masi, un nostro terreno. Creammo il Campofiorin, un cru di Ripasso, e lo presentammo nel 1967. Grande successo. Dopo un po’ ci siamo trasformati in Masi Agricola incorporando la Boscaini. Il fatturato saliva del 100% l’anno. Era il periodo del Rinascimento del vino italiano, interrotto nel 1986 dallo scandalo del metanolo e rilanciato subito dopo, ancora più forte».
Com’è nato il Ripasso?
«Con mio padre. Il Valpolicella era fresco e gioviale, l’Amarone un vino da meditazione. Mancava un vino di mezzo. Nell’Italia povera degli anni 50, riciclò gli scarti, le vinacce di Recioto e Amarone, ricche di zucchero, per una seconda fermentazione. Luigi Veronelli ci elogiò, il grande critico Hugh Johnson parlò di una tecnica ingegnosa. Ho regalato il nome alla Camera di commercio, chiedendo che venisse mantenuto il ricordo di mio padre».
Nel 1968 è stata istituita la Doc della Valpolicella, tra le polemiche.
«Ci fu un eccessivo allargamento per Valpolicella, Bardolino e Soave. Dicevano: il mondo chiede molto Valpolicella, piantiamo più vigneti in molte zone. Con gli anni si è capito che l’allargamento può essere un pericolo».
E l’Amarone?
«Negli anni 70 venivano a trovarmi i critici americani di Wine Spectator, mi battevano la spalla e mi dicevano: buono, ma lascia perdere, pianta Cabernet e Merlot. Non li ho ascoltati».
Come avete lanciato l’Amarone?
«Ho avuto un’intuizione: bisognava renderlo più bevibile. Era quasi un Porto, ossidato, ostico. Abbiamo studiato con l’università di Milano e capito che bisognava raccogliere uve integre non sovramature, appassirle con rigore, farle fermentare velocemente. Nel 1983 è nato il primo Amarone contemporaneo».
Quando l’avete presentato?
«Al Vinitaly del 1987, gli altri produttori portavano l’annata 1977. Uno choc. Mi davano del matto. Poi tutti mi hanno seguito».
Cos’è l’Amarone?
«Un’illusione di dolcezza, ci sono solo 6 grammi di zucchero, è suadente, non esiste un altro vino così forte e equilibrato, barocco e femminile, complesso e piacevole, longevo e mutante nel tempo. Se si stappa dopo 15 anni, è come aprire un vasetto di ciliegie sotto spirito».
Quali documenti avete trovato sulle 250 vendemmie?
«La carte raccontano che la famiglia Bonaldi, panettieri, affittò Vajo dei Masi ai Boscaini, Giobatta fece la prima vendemmia nel 1772. Abbiamo trovato anche un inventario dei beni. C’è una tesi universitaria, con documenti raccolti tra parrocchie e comuni, che elenca tutto. L’ha scritta un ragazzo che ora è diventato commercialista a Verona. Abbiamo recuperato la chiave di volta di un portone con un angioletto datato 1772. Mio nonno mi raccontava di suo nonno e di Giobatta che andavano a piedi, con un’ora e mezza di cammino, a raccogliere l’uva. Poi un Boscaini sposò una Bonaldi e unimmo le terre».
Cos’è oggi Masi?
«12 milioni di bottiglie, cantine in Valpolicella (siamo stati i primi a introdurre i cru) e in tutto il Nordest (Bossi Fedrigotti, Serego Alighieri, Canevel, Canova), in Val d’Orcia e in Argentina. 500 ettari, altri in affitto a lungo termine, in totale 1.300. Con una rete di 40 piccoli produttori, un club delle uve di qualità».
Avete aperto a nuovi soci?
«Sul mercato borsistico c’è il 25% delle azioni, manteniamo il 75% io e i miei due fratelli, Sergio e Mario. Il patron di Diesel Renzo Rosso ha acquistato sul mercato e ci ha fatto molto piacere. Tra i grandi soci c’è Enpaia, l’ente previdenziale dei lavoratori dell’agricoltura. Abbiamo creato un investor club, con iniziative per gli azionisti».
Si sente più contadino o più imprenditore del vino?
«Mi sento un viticoltore attuale. Mi riconosco nella cultura della Serenissima Repubblica, che accomuna tutto il Nord est. Per questo ho creato il Premio Masi alla civiltà veneta».
Chi l’ha colpita di più tra i tanti premiati e gli altri personaggi?
«Il poeta Biagio Marin, cieco, un patriarca che parlava con un dialetto astruso. Bill Gates, alternava momenti di totale immersione in se stesso a momenti di estrema curiosità con raffiche di domande tecniche su aspetti anche minori. E poi Luciano Pavarotti, innamorato di questi vini barocchi, larghi e pieni come la sua voce. Ma soprattutto Bocelli, non sapevo fosse un raffinato sommelier, molto preciso nell’analisi del vino, oltre che un produttore nel Chianti pisano».
Come ha fatto a far arrivare il vostro Recioto alla cena di gala per il Nobel della pace 2015?
«L’ha proposto un giornalista svedese, era sicuro che sarebbe piaciuto per il brindisi. Aveva ragione. Mio figlio Raffaele partecipò alla cena con i reali».
Sua moglie la segue nei suoi giri per il mondo?
«Mia moglie è estranea a questo settore, si occupa di arte, di pittura. Ma non mi ha mai frenato. In casa non beviamo, la domenica vuole una bottiglia di Lambrusco mantovano, le ricorda la sua famiglia. Il vino è la storia delle famiglie. L’uniformità cancella la biodiversità dei vini, impedisce la lettura del carattere delle persone».
E i figli?
«Marcella è veterinaria, aveva chiaro il suo futuro già a 3 anni. Alessandra è la direttrice delle vendite. Raffaele è il presidente di Masi (e anche presidente di Confindustria Verona), segue il gruppo tecnico e si occupa di marketing. Vendiamo in 140 Paesi, con Antinori siamo la cantina più globale tra le italiane».
Anche se non beve a casa, ha una cantina privata?
«Certo, compro vino nel mondo e ricevo regali. Ma soprattutto possiedo una collezione straordinaria, iniziata da mio nonno: più di 100 anni di Amarone. Una lungimirante raccolta, circa ottomila bottiglie. Non esiste nulla di simile in Valpolicella. Possiamo stappare una bottiglia degli anni 20. Ne abbiamo aperte alcune del 1937 per i 50 anni del matrimonio dei miei genitori. Un’emozione, l’Amarone era ancora bevibile».
Cosa cambia dopo 250 anni per Masi?
«Vogliamo parlare direttamente con i consumatori. Per questo stiamo ultimando un nuovo edificio, un’agorà di 1.500 metri quadrati in cui accoglieremo 50 mila visitatori l’anno. Con un percorso esperienziale. E una grande zona di appassimento per le uve dell’Amarone, un monumento alto 12 metri. Non ci sarà un solo grammo di plastica, solo canne di bambù e cassettine con le sponde d’acciaio».