la Repubblica, 6 ottobre 2022
Un festival per Steno
La Festa-Festival di Roma sotto il segno di Steno. La rassegna consegna ampio spazio e un premio dedicato (la giuria guidata da Carlo Verdone) alle commedie e un documentario delicato su Stefano Vanzina, 100 film, 48 anni di carriera e un’eredità cinematografica vitalissima: è fresco l’annuncio che Titanus farà una serie tv suPiedone, Salvatore Esposito al posto di Bud Spencer nel ruolo dello sbirro tra Napoli e il mondo.Steno, firmato da Raffaele Rago (soggetto di Nicola Manuppelli), ripercorre la carriera dell’artista, da umorista del Marc’Aurelio – nave scuola di satira da cui nasce una schiera di talenti del cinema italiano del dopoguerra – alla saga di Totò nel sodalizio con Mario Monicelli, il primo film a colori del cinema italiano (Totò a colori), il Totò ladro nella guerra (tra poveri) con la guardia Aldo Fabrizi. «Totò ha capito subito che papà era buffo e lo ha amato», ricorda Enrico Vanzina. Film culto come Un americano a Roma – la locandina italiana più affissa nei ristoranti al mondo – con Alberto Sordi Nando Moriconi, lo spaghetto “m’hai provocato e io me te magno” eMio figlio Nerone, con Vittorio De Sica e una giovanissima Brigitte Bardot, la prima cotta del giovanissimo Carlo Vanzina. E la commedia dolce Susanna tutta panna, l’invenzione del poliziottesco con La polizia rigrazia che apre la strada a un filone nuovo, eFebbre da cavallo “col fischio”, la soddisfazione di dirigere Orson Welles inL’uomo, la bestia e la virtù, «ne conquistò la stima. Sul set il primo giorno gli tremavano le gambe: vuole dare lei il primo ciak mister Welles? “No, it’s up to you”», racconta Enrico. Ancora, Amori miei, con Monica Vitti, insieme a Franca Valeri l’attrice che amava di più, ricorda ancora Enrico, «perché sapevano far ridere».Oltre a ripercorrere la carriera sconfinata del cineasta scomparso nel 1988, il documentario si sofferma sulla personalità e sul privato del regista schivo, che si stupiva quando gli chiedevano l’autografo. A raccontarlo, oltre a un commosso e commovente Enrico Vanzina, che ha consegnato preziosi materiali, foto e video di famiglia, attori e registi, da Giuseppe Tornatore che lo intervistò e ricevette preziosi consigli, a Claudio Amendola, Eleonora Giorgi, Lino Banfi, Diego Abatantuono, Neri Parenti, Giovanna Ralli, Teo Teocoli, Massimo Ranieri e altri. «Guardando il film una parte del pubblico scoprirà che tanti film diversi che hanno amato appartengono a Steno. E scoprirà la cultura larga – grande conoscitore di musica e letteratura —, un modo di vivere e pensare che caratterizzava la famiglia Vanzina e che Carlo e Enrico hanno ereditato». Quella di StefanoVanzina è una storia personale inedita per il grande pubblico, dall’infanzia povera, orfano di padre a 15 anni, agli esordi duri, determinazione e serietà accompagnate a «una gentilezza ed educazione d’altri tempi che poi è stata disintegrata nella contemporaneità» racconta Caterina D’Amico. Un’eleganza fatta di giacche di tweed con cravatteassortite, baffetti curati, capelli lisciati dalla brillantina, la corporatura «esile ma con un’autorevolezza che lo rendeva un gigante, quando s’arrabbiava era incredibile, e anche un po’ comico», ride Claudio Amendola.«I suoi amori erano il cinema e la famiglia, gli amici – racconta Rago – Era un uomo gentile e riservato,sempre un passo indietro malgrado fosse uno dei più grandi registi italiani». Si ripercorre il grande amore con la bella e volitiva moglie, Maria Teresa Nati, ma anche i dolori e la malattia di lei, il cui racconto porta le lacrime agli occhi di Enrico. «Quando ha rivisto il film si è commosso – rivela l’autore del documentario – l’unica cosa che mi ha chiesto è stata di aggiungere un video in cui ci fosse Carlo. Il film è anche un omaggio a lui, così simile al padre per cultura e carattere». Emoziona il ricordo, di Marco Risi ed Enrico Vanzina, della morte di Steno: Risi racconta che papà Dino andò dai ragazzi a dire loro che ci sarebbe sempre stato. Il documentario racconta di una schiera di ragazzini figli di registi cresciuti insieme, perché allora il cinema italiano era fatto di una comunità solidale e creativa. Giuseppe Tornatore sottolinea come il cinema di Steno, «divertente e popolare, nascondeva elementi beffardi, un’ironia acuta, un sarcasmo non vago ma riferito al nostro contesto storico, capace di innescare elementi di riflessione critica sul costume nazionale». Per Rago, dietro a un’apparente leggerezza c’era «la capacità di lettura della società e la voglia di raccontare il proprio Paese in tutti gli aspetti. Il pubblico si identificava nei suoi film, in quelli di quella generazione di cineasti, perché sentiva che amavano profondamente il Paese, si sentivano partecipi nella costruzione del racconto dell’Italia. Anche quando Totò mette alla berlina l’esercito sconfitto si percepisce un amore verso una nazione che usciva dal fascismo e da una guerra sbagliata e persa». Enrico Vanzina: «Quella generazione di registi è stata temprata dalle grandi difficoltà, erano giovani pieni di grandi slanci politici, c’erano discussioni, litigate: cercavano di immaginare un futuro,e questo li ha resi migliori».