la Repubblica, 6 ottobre 2022
I segreti del gatto
Povero gatto di Schrödinger. Chiuso in una scatola in cui c’è o non c’è un pericoloso veleno, può essere insieme vivo e morto, dipende da come lo guardiamo. Niente panico: è solo un esperimento mentale di meccanica quantistica. Sì, ma perché non un topo, un coniglio o un canguro? Non lo sapremo mai. Resta il fatto che, mentre ragionava sul principio d’incertezza, al grande fisico austriaco sia venuto in mente proprio un gatto.
D’altronde, pensiamoci: non è incerta la natura stessa di questoanimale, sfuggente a carezze e a definizioni, insieme familiare e misterioso, effabile e ineffabile? Perché nei gatti, nel loro comportamento, nei loro affetti e movimenti, non c’è davvero alcunché di certo o prevedibile: i gatti capitano. Così dice un filosofo, Timothy Morton, che li chiama addirittura alieni: alieni intraterrestri. E non intende gatti letterari, come Behemoth de Il maestro e Margherita di Bulgakov, che parla, cammina su due zampe, mangia con le posate e paga pure il biglietto del tram. Gli alieni qui sono i gatti veri, che anche quando li crediamo domestici (ossia, il contrario di alieni) sono sempre pronti a sdomesticarsi. Lo conferma la biologia: tra Felis silvestris eFelis catusil confine è sottilissimo e non è chiaro nemmeno se siano due specie diverse. Però si incrociano, e la loro prole è fertile a sua volta. Insomma: nell’incertezza, si lasciano aperte tutte le porte.
Perché effettivamente decidono loro, ed è anzi opinione diffusa presso gli archeozoologi che i gatti si siano addomesticati da soli. Accadde circa diecimila anni fa, nella Mezzaluna fertile, quella parte di Levante tra Egitto, Turchia e Iran, dove sorse prima che altrove l’agricoltura. Intorno ai granai c’era cibo, e soprattutto c’erano topi. Fu così che piccoli felini appartenenti alla specie Felis lybica lybica invasero letteralmente le città e i villaggi neolitici. Topi a parte, fu un bene per tutti: gli abitanti umani si accorsero presto che avere gatti in case e granai era un vantaggio, e i gatti capirono subito che un po’ di compagnia umana (con annessi benefit in termini di cibo e riparo) in fondo non guastava. Iniziò così la storia del commensalismo tra umani e gatti, e forse anche la storia dell’economia mercantile, perché senza gatti intorno ai siti di stoccaggio o sulle navi sarebbe stato impossibile tenere a bada i roditori. Insomma, tra i nomi del gatto dovrebbe esserci anche questo: Felis catus oeconomicus.
Non una cosa banale, il nome del gatto. Una ricerca svolta da etologi giapponesi nel 2019, per esempio, sostiene che i gatti capiscano quando li chiamiamo, ma solo se ci conoscono. Molto spesso, tuttavia, semplicemente decidono di ignorarci.
Forse quel che gli etologi giapponesi non sanno è che i gatti hanno più di un nome, ma per questo ci vogliono i poeti, che in fatto di gatti sono molto scientifici. Secondo T. S. Eliot, che nel 1939 scrive un turbinoso poema felino, The Old Possum’s Book of Practical Cats (Il libro dei gatti tuttofare ), ogni gatto ha tre nomi. Il primo è il nome d’uso familiare: Pietro, Augusto, Alonzo. Poi c’è il nome «particolare e peculiare», quello che gli conferisce dignità propria, come farebbe un soprannome o un nome di battaglia. Infine ce n’è un altro: il nome segreto, il suo «profondo inscrutabile e unico NOME». E quello, dice Eliot, quello lo conosce solo il gatto.
Con la levità di una danza e l’allegria di un rap (in inglese il ritmo dei versi è travolgente – e non è un caso che dall’ Old Possum’s Booksia tratto Cats, uno dei musicalpiù longevi di Broadway), Eliot ci sta spingendo a fare un salto ulteriore. Il nome arcano dei gatti ne sancisce infatti la dimensione teologica, da sempre presente nella figura felina. Naturalmente, il pensiero va ai gatti egizi, animali sacri a Iside e divinità essi stessi, come la dea-gatta Bastet, che vegliava sulla casa, sulle donne e sulla fertilità. Ma non è solo questo. La vera dimensione teologica cui allude Eliot è piuttosto quella di una teologia negativa: un discorso sul divino che, come i gatti, rifiuta gli attributi con cui noi umani delimitiamo ciò che non tollera limiti.
E qui facciamo ancora un altro salto, stavolta verso i grandi felini: quelli che non hanno nomi per noi ma solo nomi per sé, inaccessibili a chi li guarda attraverso uno specchio e per enigmi. A guidarci è Jorge Luis Borges, enigmatico poeta di specchi e padrone di gatti (il suo, «bianco e celibe», si chiamava Beppo). L’immaginazione di Borges è popolata da giaguari, puma, leoni, ma soprattutto da tigri: azzurre, d’oro, magiche, infinite. Da bambino, ne vede una camminare avanti e indietro nella gabbia dello zoo, e da allora gli ritorna in visioni notturne, e in poesie e racconti che sembrano sogni a loro volta. La sua tigre è una fiera e un archetipo, insieme oggetto metafisico e carnalissimo soggetto di muscoli e luce, di artigli e di pelo. In un racconto famoso, La scrittura del dio, la figura della tigre si confonde con quella del giaguaro (in guaranì, lingua indigena sudamericana da cui viene “giaguaro”, jaguarete indica entrambi gli animali). Prigioniero per anni in una cella da cui vede il felino, un sacerdote indio comprende che le macchie sulla sua pelle sono l’alfabeto con cui comunica il dio: «dire la tigre è dire le tigri che la generarono, i cervi e le testuggini che divorò, il pascolo di cui si alimentarono i cervi, la terra che fu madre del pascolo, il cielo chedette luce alla terra». La tigre è il materializzarsi di un logos pardo e indio, che vive e parla e pensa nella carne della sua creazione.
Ma il linguaggio dei grandi felini, specie a queste latitudini, non è necessariamente divino. Può anche essere un universo ibrido di segni umano-animali. Questo porta a ulteriori ibridazioni, per esempio nella figura del runa puma, un uomo che ha guardato negli occhi il predatore ed è riconosciuto come puma a sua volta, non solo dall’animale ma anche dalla sua comunità, ai cui membri spesso appare in sogno. Ne parla l’antropologo Eduardo Kohn, studioso di culture amazzoniche, in un libro straordinario, Come pensano le foreste.
Ma è il momento di fare l’ultimo salto: dai felini venerati e sognati a quelli che vivono e soffrono. Vale la pena ricordare, infatti, che non solo molti dei grandi felini sono a rischio estinzione («La lunga tigre lucente, il leopardo fiorito… tuttora ci minacciano | ma della loro scomparsa», scrisse la poetessa milanese Daria Menicanti), ma anche i gatti non se la passano tanto bene: solo negli Usa viene soppresso il 70% dei randagi catturati. In Italia però dal 1991 esiste una legge che protegge le colonie feline e che vieta a chiunque di «maltrattare i gatti che vivono in libertà». Quanto possa non si sa, ma è importante che ci sia.
Anarchici, vittime, cavie, alleati, commensali, opportunisti, santi, poeti e navigatori. Quante cose sono i felini, grandi e piccoli. Pensiamoci, quando sentiamo il micio che ronfa placido sul sofà.
Perché, chissà? Forse non sta ronfando, ma meditando: il suo «ineffabile effabile / effineffabile / profondo inscrutabile e unico NOME».