La Stampa, 5 ottobre 2022
Intervista a Walter Veltroni
«Il 36 per cento degli elettori non è andato a votare: un ceto politico riflessivo si dovrebbe fermare a parlare di questo». Parte da qui Walter Veltroni per commentare il risultato delle elezioni. Dal «presentismo esasperato, l’affannoso rincorrersi di parole vuote» che, dice, «ritengo sia una delle cause della gigantesca disaffezione degli elettori». Da qui, secondo il primo segretario del Pd che oggi ha chiuso «per sempre» con la politica, e la guarda, insiste, «con uno sguardo appassionato ma doverosamente distante», dovrebbe partire la «riprogettazione dell’identità della sinistra». Non dallo scioglimento del partito che ha contribuito a fondare, non dal dibattito sulle alleanze: «La sinistra deve affrontare una sfida inedita».
A cosa si riferisce?
«Questo è il secolo della paura. Dall’inizio del millennio siamo entrati in un gigantesco terremoto: l’11 settembre, la lunga crisi finanziaria, la pandemia, la crisi climatica, la sensazione di una guerra atomica non impossibile, i mutamenti demografici, che costringono a ripensare il welfare, il lavoro, le nuove forme di comunicazione. Non ho paura a dire che è il tempo di immaginare un’altra società: la sinistra deve capire come portare i suoi valori in questo terremoto. Se invece continua a discutere solo se allearsi con questo o con quello, lascerà alla destra il compito di incarnare il senso di smarrimento dei cittadini».
Portiamo a terra il suo invito: come si fa a calarsi in questo terremoto?
«Ma è proprio questa la “terra” di un partito. La terra di un partito non è la dichiarazione del giorno o l’ambizione dei singoli. È una comunanza di sentimenti: il Pci ha fatto tanti errori, ma c’era la sensazione che quella fosse una comunità».
Allora portiamola alle scelte dell’oggi: nel Pd si è aperto un dibattito su come cambiare, c’è chi propone lo scioglimento…
«Assistiamo al paradosso per cui chi ha dimezzato i voti esulta, e un partito che ha quasi il 20 per cento discute se sciogliersi… Il Pd più che una sconfitta elettorale ha subito una sconfitta politica, rischia molto se non coltiva la sua identità e se non cambia profondamente».
Qual è la sua identità?
«Torniamo alle radici. Nel 2007 cercammo di dire che il Pd non era l’alfa privativo, quello che era rimasto dopo la fine dei partiti del ’900, ma una bellissima identità propria, il soggetto che coniugava, senza la costrizione delle ideologie, la radicalità del riformismo con la pienezza delle libertà. Non doveva essere un indistinto affetto da moderatismo né una sinistra minoritaria alla disperata ricerca di alleanze».
Doveva avere, sostenne lei, una «vocazione maggioritaria».
«Quando usai quell’espressione, intendevo l’ambizione di costruire un soggetto post-ideologico, riformista, con forte ancoraggio nei valori della sinistra democratica, che puntasse a ottenere il consenso. E nel 2008 i democratici ebbero tanti voti quanti la sinistra italiana ne aveva ottenuti solo nel 1976 con Berlinguer, guadagnati soprattutto nelle periferie e dove la gente soffriva di più».
Poi però sono passati 15 anni e varie scissioni, e il Pd è stato 10 anni al governo, con Berlusconi, con Salvini, col M5S…
«Il Pd ha avuto tanti torti, ma ha contribuito a evitare il peggio per il Paese, spesso svenandosi. Io penso che dopo la crisi del governo Conte-Salvini sarebbe stato giusto andare a votare, e che sia stato un errore cambiare posizione rispetto alla riforma sul taglio del numero dei parlamentari: la Costituzione non si cambia a pezzetti con le urla, ma con una visione generale. In 14 anni il Pd ha perso circa sette milioni di voti: la prima cosa da fare non è allearsi con Conte o Calenda, ma riallearsi con quei sette milioni di elettori».
Più facile a dirsi che a farsi, non trova?
«Non sarà risolutiva l’ennesima testa di segretario che rotola, ma la capacità di ritrovare quella doppia dimensione, concretezza sociale e idealità, che ha costituito il meglio della storia della sinistra. Le persone si convocano sempre attorno a un sogno, non a una paura».
Mi faccia un esempio.
«Mi colpisce il silenzio sull’Ucraina, sui ragazzi russi arrestati e mandati al fronte, sulle ragazze iraniane in piazza. Non basta un tweet: non c’è una manifestazione, una protesta per la libertà assediata in varie parti del mondo».
Il Pd dovrebbe organizzare una manifestazione di quel tipo?
«Sì: è scritto nel suo Dna, nella sua storia. Pensi se centomila persone scendessero in piazza a Roma: una manifestazione fa notizia. E fa anche “sentire comune”, fa comunità, coscienza di essere dalla stessa parte».
Usa spesso la parola “comunità”: nel suo breve discorso della vittoria, chi ha ringraziato e coinvolto la sua è stata Giorgia Meloni.
«Una grande forza politica deve avere alle spalle una comunità. Ora bisogna ritrovare quella di sinistra. L’ultima grande immagine che ho della mia esperienza politica è l’enorme manifestazione al Circo Massimo del 25 ottobre 2008: lì ebbi la sensazione che una comunità del Pd si fosse definita. Un partito non è un Kleenex: un partito è memoria e futuro, e lotta nel presente. E deve essere aperto, una calamita per soggetti, associazioni, movimenti».
Chi ha questa visione oggi nel Pd? Circolano già nomi di candidati segretari…
«Non è un problema di persone, ma di orgoglio, proposte, identità. Sento chi dice di cambiare nome al Pd: è come se stai male e per reazione alla malattia, anziché curarti, cambi nome».
Forse perché, anche tra i dem, c’è chi dice che il brand è diventato antipatico.
«La sinistra riformista deve togliersi dalla testa l’idea di essere superiore, che chi la pensa diversamente, a destra o più a sinistra, è un incolto o un’anomalia. Serve recuperare umiltà intellettuale, e sentirsi una parte, non il tutto. Vogliamo dire la verità? È stato giusto difendere la premier finlandese Sanna Marin quando è stata criticata dopo le foto di una festa, ma immagino cosa si sarebbe detto a sinistra se fosse successo a Giorgia Meloni».
Una sinistra che porta in Parlamento meno del 30 per cento di donne: anche questo è un problema.
«Questa legge elettorale è un tale pasticcio che forse non hanno saputo fare nemmeno bene i conti. Ma è importante che la valorizzazione dei talenti, in primo luogo quelli femminili, avvenga per merito, non per via correntizia. Da questo punto di vista l’opposizione aiuterà».
Il Pd è pronto a organizzare l’opposizione?
«L’opposizione non è una gogna. Dall’opposizione si possono cambiare i Paesi, si può aspirare a governare. Governare non è un fine, è un mezzo. Non si sta in politica per governare, e se si governa lo si fa per cambiare. Questa può essere una fase di rigenerazione, si faccia opposizione con le proprie idee, in Parlamento e quartiere per quartiere, e su questa base si verifichino le future alleanze possibili».
Come giudica la parabola del M5S, da né di destra né di sinistra a forza che si autodefinisce progressista?
«Non mi dolgo della loro evoluzione, ma la loro adesione al campo progressista chiama in causa la centralità del riformismo italiano: se è forte, il dialogo con loro può avvenire su buone basi; se è fragile, il rischio è la subalternità. Penso però che anche i Cinque stelle debbano continuare un processo per allontanare definitivamente elementi di antipolitica che appaiono posticci dopo quattro anni di governo».
Cosa si aspetta dal governo di Giorgia Meloni?
«Giorgia Meloni è una donna intelligente che ha combattuto per affermare il suo ruolo dentro il suo partito e fuori, con gli alleati. Dopodiché, il problema è di sistema: sarà una destra alla Bolsonaro, alla Trump, o ci sarà un’evoluzione? In campagna elettorale hanno promesso tutto a tutti, assecondando il vizio italiano di Pinocchio, il pane imburrato da tutte e due le parti. Si aprirà presto un dissenso sociale molto forte, ci si deve preparare a un’opposizione forte e vigorosa».
Condivide l’allarme sul rischio fascismo?
«Per me la parola fascismo ha una sua gravitas. Il fascismo è stato il delitto Matteotti, le leggi razziali, la guerra… Questa gravitas vorrei non si perdesse. Questa destra è pericolosa per il suo populismo, la sua demagogia, gli attacchi possibili ai diritti civili, ma come si è contrastato Trump in America, si riuscirà a contrastare questa destra».
La definisce una destra «pericolosa». È preoccupato?
«Mi faccio delle domande. Questo Paese ha consumato Berlusconi, la Lega, il Pd, il Movimento cinque stelle: ogni volta c’è stato uno tsunami elettorale che ha spostato milioni di voti. Questo dà la percezione di una democrazia in cerca di un riferimento, che ogni volta ne scarta uno: cosa ci sarà dopo? Rischiamo un’ulteriore radicalizzazione? Anche per questo c’è bisogno di una sinistra riformista e non minoritaria».
Ha mai pensato di tornare alla politica?
«C’è un tempo per ogni cosa, la mia vita politica è finita per sempre. Ma ho 67 anni, la vita media è di un’ottantina, diciamo che dovrei vivere ancora due o tre elezioni: spero di riuscire a vedere una sinistra riformista capace di essere maggioranza nel Paese».