La Stampa, 5 ottobre 2022
A cinque anni dal #Metoo
In cinque anni, il #Metoo, l’epocale movimento di denuncia delle molestie sessuali, ha cambiato quasi tutto, quasi tutti, e prima d’ogni cosa se stesso. È stato giustizialista, populista, femminista, collettivista, manicheo, fluido, intersezionale, queer. Ha aperto una voragine e poi un varco. Ha ridefinito e ridiscusso il potere, il consenso, la seduzione, il sesso, l’amore, il desiderio, la violenza, il sopruso, la vergogna, la colpa, la responsabilità, la prova, la testimonianza, la solidarietà. Ha troncato la tolleranza verso la zona grigia, alcune carriere, alcuni colpevoli, alcuni innocenti, alcuni in attesa di giudizio. Qualcuno ha confessato, qualcun altro è finito in prigione, qualcun altro ancora si è ucciso. Tutti hanno chiesto scusa. Comici, politici, attori, registi, produttori, capi, mariti, amici, compagni. Tutti maschi. Che oggi dicono: «Non parlo di #Metoo» (28 uomini su 29, tutti tra i trenta e i cinquant’anni, hanno risposto così a una richiesta de La Stampa di raccontare come e se il #Metoo abbia inciso nelle loro vite).
Cinque anni fa, mentre le donne dicevano, una dopo l’altra, «anch’io», loro dicevano, uno dopo l’altro, «io no». Le donne dicevano anche io sono stata molestata, e i confini di cosa era molestia si allargavano; gli uomini dicevano: io no, io non sono un molestatore, non tutti gli uomini sono molestatori. Lo dicevano anche le donne: il #Metoo chiedeva, con intransigenza, di riconoscersi tutti parte di un sistema consolidato che accettava e persino legittimava la molestia come esercizio di potere. Dice Cristina Comencini a La Stampa: «Il #Metoo ha creato una frattura profonda tra chi subiva un comportamento millenario, le donne, e chi lo perpetrava, gli uomini. In questo senso, era inevitabile che, per gli uomini, il #Metoo avesse un risvolto inibitorio: a un certo punto, un movimento globale ha detto loro che quello che avevano sempre potuto fare perché era sempre stato ritenuto se non proprio normale di certo inevitabile, era un reato. La prima cosa che, tutt’ora, gli uomini avvertono quando si parla di abusi sessuali è un enorme senso di colpa, che però non porta da nessuna parte, e ancora li smarrisce». Su dove il ripensamento innescato debba portare, Comencini non ha dubbi: «Le donne aspirano a una nuova libertà nei rapporti tra le persone. Una libertà reciproca, che nasca da un nuovo modo di desiderarsi, di stare insieme, di fare l’amore. È una ricerca in atto, preziosissima».
Tanto più il #Metoo è stato, spesso, superficiale nel condannare, quanto più è stato profondo nell’indagare i capi d’accusa. Ha avuto un effetto domino e un effetto scavo. Ed è per questo che, oggi, non c’è movimento di pensiero, di rivolta, di rielaborazione, che non abbia un debito con il #Metoo: vale anche per i rigurgiti, i nuovi autoritarismi, i revanscismi, le polarizzazioni? Dice Comencini: «Non vedo una ritrazione, almeno nella coscienza collettiva, sui diritti femminili». Ma gli italiani hanno votato Fratelli d’Italia. «Hanno votato Giorgia Meloni. Il movimento delle donne, dagli anni Settanta in poi, ha prodotto una grande spinta in avanti di tutte le donne, incluse quelle che non si riferiscono a quel movimento. Il femminismo è un fatto collettivo, crea uno spazio per tutti. Anche grazie a quello spazio, Meloni ha potuto guadagnarsi quello che ha conquistato oggi».
È complesso, viste quante cose il #Metoo ha investito, travolto e trasfigurato, individuare il criterio con cui misurarne l’impatto, il successo, l’insuccesso. Il New York Times, il giornale che il 5 ottobre del 2017 dava inizio a tutto, pubblicando l’inchiesta sugli abusi sessuali commessi da Weinstein, il padre fondatore della Miramax, in un articolo che ieri si domandava quale fosse il bilancio di questi cinque anni, scriveva che «il destino di un intero movimento globale è stato deciso in un’aula del tribunale della Virginia». Si riferiva all’aula in cui si è tenuto il processo di Johnny Depp contro l’ex moglie Amber Heard, chiuso due mesi fa da una sentenza che ha condannato entrambi per diffamazione, ma lei di più: lei deve a lui 15 milioni di dollari e lui deve a lei 2 milioni. Prima che la sentenza fosse emessa, mentre il processo veniva dibattuto, e trasmesso online per intero, alcuni (attivisti, giornalisti) avevano detto: qui finisce il #Metoo. E non perché il processo si fosse concluso a sfavore di Heard, ma per quello che lei aveva subìto durante il processo: le ingiurie sessiste degli utenti, i giudizi sommari desunti dal suo modo di vestire, di parlare, di piangere. Altri, invece, avevano detto: qui il #Metoo diventa adulto perché spezza l’automatismo per cui una donna è per forza vittima e un uomo è per forza colpevole, e perché il tribunale non risente del condizionamento esterno (secondo i sostenitori di questa linea, lo Zeitgeist è coattivamente – per principio, diciamo – favorevole alle donne e sfavorevole agli uomini).
«Sono passati cinque anni e ancora ci misuriamo con il #Metoo: è presente nel discorso collettivo non solo come tema, ma come discrimine, come punto di osservazione. Sta qui la misura del suo impatto: nella permanenza che ha nel discorso pubblico», dice Giulia Blasi, scrittrice e attivista, che ha creato l’hashtag italiano del #Metoo, e cioè #Quellavoltache. Lo racconta così: «Quando venne fuori che, tra le vittime di Weinstein, c’era anche Asia Argento (lo scrisse Ronan Farrow, nell’inchiesta per il New Yorker che uscì qualche giorno dopo gli articoli del New York Times, ndr), in Italia ci fu una reazione molto violenta. Si disse che Argento se l’era andata a cercare, che era una poco di buono, che avrebbe dovuto denunciare prima. E allora, insieme ad altre compagne, capimmo che era importante dimostrare quanto è complicato denunciare, anche perché è molto forte l’idea che una donna che subisce un abuso, in fondo, o lo provoca o non ha adottato tutte le misure per evitare di subirlo. Volevamo raccontare la vulnerabilità, darne una misura. Così, su Twitter, inventammo un hashtag presso il quale le donne potessero dire le loro storie. La partecipazione fu gigantesca, impressionante. Non eravamo preparate, non ci eravamo date alcuna struttura. Successe niente di più di quello che negli anni Settanta succedeva nei collettivi femministi, con la differenza che, stavolta, il personale politico usciva fuori, arrivava a tutti grazie ai social. L’elaborazione venne dopo e ramificò un processo tutt’ora in corso di consapevolezza, ridefinizione, destrutturazione e lotta che è una ondata nuova di femminismo. In generale, l’uso dei social nelle battaglie politiche, oggi fa sì che ogni questione si sposti da cosa fai tu a cosa si può fare tutti insieme». Tra donne e uomini cos’è cambiato? «Da una parte, c’è una ritessitura e una rielaborazione del desiderio e quindi del consenso. Credo che tanto nelle donne quanto negli uomini si sia allargata la consapevolezza del fatto che le donne sono sempre state educate a cogliere il desiderio degli uomini, anziché a capire cosa desideravano. È per questo che il consenso è un fatto così delicato. Dall’altra parte, è in atto una radicalizzazione in chi si sente fragile, minacciato, perché non riesce a riconoscersi al di fuori dei ruoli assegnati dal patriarcato, e allora cerca di consolidare quei ruoli: così nasce il richiamo all’uomo forte, la nostalgia per “quando si poteva dire tutto”, e cioè fare tutto. È una guerra fra oppressi in cui anziché riconoscersi come tali, donne e uomini si accusano vicendevolmente».
A cosa succeda alla seduzione, ai flirt, all’autocoscienza, all’amore in questo tempo, la #Metoo era, Elisa Casseri, scrittrice, ha dedicato il suo ultimo libro, Grand Tour sentimentale (Solferino). Dice a La Stampa: «Ho intervistato 38 uomini e 52 donne sulla loro emotività e quindi anche su questo sbilanciamento negli equilibri di potere tra i sessi a cui nessuno era pronto. Nelle relazioni, più che di fronte a un cambiamento, mi sono trovata davanti a un incidente: un tamponamento a catena che uomini e donne stanno fermi a guardare, continuando a chiedersi chi deve pagare cosa. Gli uomini soffrono – perché non sanno come muoversi in un mondo che non gli permette più di occupare uno spazio infinito, perché vorrebbero smettere di oggettivare le donne ma non ci riescono, perché “queste stronze di femministe” gli hanno rovinato la vita – e le donne sono molto stanche di dover accettare, per stare in una relazione, di essere il contenitore (standard) per tutte quelle diverse sofferenze. La loro acquisizione di consapevolezza del sé sta proprio qui: nella constatazione (non) amichevole di dover trovare nuovi modi di fare coppia». Le donne dicono: riesci ad avere a che fare con me anche se io non mi adatto a quello che ti hanno insegnato che devo essere per te, anche se io non transigo più? Chiedono: riusciamo ad aiutarci a non essere più complici del patriarcato? Dice Comencini: «La frattura operata dal #Metoo ha imposto alle donne anche di combattere la convinzione che l’abuso maschile trovasse ragione nel fascino che, su di loro, eserciterebbero il denaro e il potere. È questa la cosa più importante del #Metoo: aver scardinato un’idea tradizionale che per decenni ha fatto dire che le donne se la cercavano, erano corresponsabili. E averlo fatto mettendosi coscientemente in discussione, riconoscendosi, quindi, parte di un meccanismo, di un concorso di colpe». La nuova luce che le donne hanno acceso su loro stesse e sul mondo è destinata, come è successo altre volte, a smorzarsi? «Il movimento delle donne non si interrompe mai. È una rivoluzione lunga che si insabbia e ritorna perché, in alcuni momenti, dobbiamo anche vivere la libertà che conquistiamo. È come se ci fossero delle fasi, perché poi c’è da fare per i figli, per il lavoro, per l’amore. La marcia è lunga, a volte lenta, ma inesorabile. Il dato è tratto, non si può tornare indietro: c’è solo la possibilità di allargare, anche agli uomini, una ricchezza gigantesca». Jonathan Bazzi, scrittore, che di quella ricchezza è certo e desideroso, dice però che il #Metoo ha lasciato un’eredità con cui dobbiamo fare i conti: «Tutte le rivoluzioni tendono a generare nuovi punti di rigidità e di condizionamento, a sclerotizzarsi, e persino a generare delle forme di ingiustizia o di violenza. Nel caso del #Metoo, questa dinamica si è accentuata per via del mezzo che ha usato, i social network, che non sono uno strumento neutro, favoriscono la polarizzazione, il tifo. Il consenso, il punto cruciale del #Metoo, è un tema refrattario al manicheismo di Twitter: è ambiguo, ha a che fare con il desiderio, che è sfuggente, contraddittorio, mutevole. E, soprattutto, è materia contaminata e contaminante. Il #Metoo, diversamente da quello che si temeva, credo lo abbia dimostrato una volta di più: il rischio, tuttavia, è che non si dimostri capace di accettarlo. Il desiderio ci parla della apertura, della contaminazione, della fine dell’identità come dato fisso: ci parla cioè dell’identità che si apre e si incastra, si lascia invadere, che ha bisogno di farsi invadere da qualcosa che spesso neanche conosce. E quindi fare i conti con l’eredità del #Metoo, valutandone l’impatto, significa ora coltivare, per esempio, un amore maggiore per la contingenza, una disponibilità a giudicare il singolo caso, la singola storia, nutrire un interesse vivo per le possibilità di riconciliazione. In sostanza, un interesse maggiore per ciò che ancora non si sa, per le storie diverse rispetto a quelle che già sono state messe in circolo, nella consapevolezza che i ruoli spesso si accostano. I dispositivi della politica, della militanza, della legge, e naturalmente dei social, mostrano i loro limiti a cospetto del desiderio che spariglia tutto, perché non possono coglierlo, perdonarlo, accoglierlo. Eppure, nella vita, succede che in una sola persona convivano la sopraffazione e l’assoggettamento, la vittima e il carnefice, l’abusato e l’abusante: consapevoli di questo, e tenendo ferma l’importanza della trasformazione che il #Metoo ha portato nelle nostre vite, credo si debba, ora, restare in allerta, attenti al nuovo, alle nuove storie, di modo da valutarle con una sensibilità più consapevole, più attenta alle singolarità, più clemente nei confronti dell’ambiguo, dell’impossibilità di controllare, sempre e fino in fondo, il desiderio. Che ancora dobbiamo imparare a scoprire e soddisfare, ed è l’impresa più difficile». —